Dopo il fortunato debutto con Ruggine americana (Einaudi) nel 2009, l'americano Philipp Meyer ha deciso di andare alla riscoperta delle origini del popolo americano, decidendo di dedicare il suo secondo romanzo intitolato Il figlio (Einaudi) al mondo della Frontiera. Un'opera che racconta la saga della famiglia McCullogh dal suo primo insediamento in territorio texano fino all'epoca in cui la scoperta del petrolio porterà al selvaggio sfruttamento di quei territori. Per entrare al meglio nel mood di questa storia, narrata a più voci, Meyer si è sottoposto a una preparazione speciale: ha impugnato colt e winchester dell'epoca, ha imparato a tirare con l'arco come i nativi americani, si è sottoposto a cerimoniali Comanche e sostiene di avere dato la caccia ai bufali (per provare l'ebbrezza di berne il sangue).
Esagerazioni a parte, l'impressione che si ha leggendo Il figlio è che Meyer sia riuscito a riassumere in maniera credibile i sanguinosi conflitti che hanno segnato la conquista del West. Come ha spiegato in un'intervista a The Millions: «Ci siamo fatti strada nel continente macellando e uccidendo e ce lo siamo presi un pezzo dopo l'altro con la forza, o lo abbiamo comprato per quasi niente. Ma d'altra parte le tribù native americane in Texas, come tutti gli esseri umani sulla terra, hanno macellato, conquistato e attaccato i loro vicini più deboli e ne hanno preso la terra. In Texas gli Apache arrivano e distruggono quasi tutte le altre tribù. Cent'anni dopo i Comanche arrivano e fanno loro la stessa cosa».
Non vi è nulla di epico nei racconti in prima persona del centenario Eli McCullough, di suo figlio Peter e della pronipote Jeanne Anne. I McCullough hanno versato sangue fin da quando erano pionieri alla ricerca di un territorio in cui insediarsi, hanno combattuto contro gli indiani, ci hanno stretto alleanze, sono sopravvissuti alla Guerra Civile, hanno intessuto traffici con i messicani, sono passati indenni dalla dimensione di allevatori di bestiame a quella di cercatori di petrolio.
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