Renzo De Felice e la democrazia in crisi d'identità

Renzo De Felice e la democrazia in crisi d'identità

È da un po' che me lo chiedo, senza saper dare una risposta precisa, ma sono anche sempre più portato a considerare il rapporto democrazia-Stato nazionale in un'ottica più vasta e, tutto sommato, mi pare, più completa e realistica di quella nella quale, in genere, esso viene visto. A guardare cioè ad esso come all'aspetto fondamentale della crisi degli Stati nazionali e della stessa idea di nazione, oggi sempre più a rischio di far naufragio, ma, insieme, come manifestazione sia della crisi funzionale che travaglia la democrazia (non come principio cioè, ma come effettiva capacità di far fronte a un numero crescente di problemi), sia di quella «uscita da un clima politico durato duecento anni» che forse stiamo vivendo e alla quale ha fatto cenno, con il coraggio intellettuale che lo contraddistingue, François Furet parlando recentemente proprio di democrazia. Nel corso degli ultimi tre secoli sia la nazione che la democrazia concretamente realizzata, sia le idee di esse elaborate dalla cultura occidentale si sono notevolmente trasformate. Al punto che sarebbe sbagliato non distinguere nettamente l'idea di nazione quale ha preso corpo nell'età liberale sia da quella (e meglio sarebbe dire da quelle) predominanti nell'età democratica, sia, a maggior ragione, dall'indebita e subdola appropriazione (e distorsione) di essa operata in varie occasioni da nazionalisti e razzisti. Di qui l'interrogativo che mi pongo. Siamo sicuri che tra le cause della crisi dell'idea di nazione quale noi l'abbiamo concepita e molti di noi la concepiscono tuttora, e delle sempre più preoccupanti manifestazioni di malessere e di crisi degli Stati nazionali fondati su di essa, quella decisiva sia quella costituita dal fatto che la seconda guerra mondiale prima e la «caduta del muro» e la fine del bipolarismo poi hanno messo in moto sia pure in modi e con intensità diverse un processo di risveglio non solo di micronazionalismi già presenti sulla scena, ma anche di suggestioni e di tendenze etniche mai manifestatesi in precedenza o rimaste circoscritte a piccolissimi gruppi culturali e religiosi? Non sarà piuttosto un'altra la causa decisiva di questo declino dell'idea di nazione e di questo malessere, e in certi casi di questa crisi degli Stati nazionali? Non sarà il deteriorarsi di quel rapporto idea di nazione-democrazia che, direttamente o indirettamente, costituisce il punto di raccordo e di sintesi tra i più importanti aspetti della realtà socio-politica nella quale viviamo?

Il punto da approfondire è piuttosto se come io propendo a credere e, al caso, come la «crisi della democrazia» e quella dell'idea di nazione interferiscano e interreagiscano tra loro, ché parlare di Europa senza porsi il problema del superamento di questa duplice crisi è mera astrazione, e non fa fare reali passi avanti alla sua integrazione ma, anzi, la rende vieppiù difficile e precaria, dato che essa per realizzarsi deve necessariamente fondarsi su una democrazia vitale e questa è almeno la mia opinione sulla partecipazione nazionale delle popolazioni disposte a farne parte.

Il che, detto in altri termini, equivale innanzi tutto a chiedersi se è da escludere che i micronazionalismi alla ribalta già prima della «caduta del muro» e della fine del bipolarismo, e ancor più i nuovi nazionalismi manifestatisi successivamente, e persino quei fenomeni che per brevità definirò «leghisti» non siano, a seconda dei casi, solo manifestazioni di nazionalismi etnici storici, o frutti di contrapposti integralismi religiosi, o prodotti di particolari (e varie) situazioni economiche; ma anche, e in buona misura, conseguenze della società di massa e della «crisi della democrazia», così come messa a fuoco da Germani; e, dunque, siano soprattutto forme di reazione all'incapacità e addirittura al disinteresse e qualche volta all'ostilità della democrazia a tutelare certi valori (uso questo termine senza caricarlo di alcun significato particolare, positivo o negativo che sia). E questi valori, contrariamente a quanto spesso si pensa, sono sentiti da molti uomini come l'unica difesa dall'alienazione e dall'isolamento, uomini che trovano rifugio e sostegno nella cultura etnica e nell'appartenenza ad una «piccola comunità», considerate da esse le uniche realtà in grado di dare «quegli antenati e quei discendenti», quel senso di continuità che la democrazia lo aveva già osservato Tocqueville e lo Stato nazione aggiungo io tolgono loro, facendoli sentire una sorta di formiche lavoratrici in una società che assicura sì (e non sempre) un certo benessere materiale, ma sottrae la possibilità di fare delle scelte effettive.

Del famosissimo saggio di Ernest Renan Che cos'è una nazione? tutti ricordano l'affermazione «la nazione è un plebiscito di tutti i giorni», frutto di una solidarietà «costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme». Nello stesso paragrafo Renan dice però anche altre cose che, in genere, nessuno ricorda: «Una nazione è un'anima, un principio spirituale. Due cose, che in realtà sono una cosa sola, costituiscono quest'anima e questo principio spirituale; una è nel passato, l'altra nel presente. Una è il comune possesso di una ricca eredità di ricordi; l'altra è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l'eredità ricevuta indivisa. L'uomo, signori, non s'improvvisa. La nazione, come l'individuo, è il punto di arrivo di un lungo passato di sforzi, di sacrifici e di dedizione».

L'idea di nazione e la coesione dello Stato nazionale hanno oggi, a seconda dei paesi, una consistenza diversa.

Siamo proprio sicuri che ciò non dipenda in buona misura dalla maggiore o minore capacità che nell'ultimo mezzo secolo la democrazia ha avuto nei vari paesi di darsi un'anima e un principio spirituale corrispondenti a quelli dei cittadini o, almeno, rispettosi di essi?

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