Sarde, "fimmine" e caffè Greco: il film della vita di Patti

Sarde, "fimmine" e caffè Greco: il film della vita di Patti

I n una vecchia intervista televisiva, Dino Buzzati, uno del mestiere, disse che «La qualità più alta del giornalismo coincide con la qualità più alta della letteratura». Vuol dire, più o meno, che tra un pezzo scritto benissimo e una grande pagina di romanzo c’è poca differenza. E se c’è, chi legge Ercole Patti - per esempio - non se ne accorge. Patti. Grande giornalista e grande letterato. Alla sua epoca (si divise sempre, anche nascita e morte, tra Catania, 1903, e Roma, 1976) lo recensivano, con lodi ed elogi, Emilio Cecchi, Geno Pampaloni, Mario Soldati, Michele Prisco. Firme pesanti, insomma. Eugenio Montale di lui diceva: «Quando è ispirato è inimitabile». La critica e il pubblico ricordano i suoi racconti e romanzi come Giovannino (1954) o Un bellissimo novembre (1967). E poi Un amore a Roma (1956), La cugina (1965), gli elzeviri di costume sull’Italia snob, poi raccolti sotto il titolo Quartieri alti (1940). Eccole qui: la Sicilia sensuale e morbosa, odorosa e inquieta, e la Roma tentatrice e intellettuale, amara e dolce. Che vita. Sull’isola erano le sarde arrostite sulla brace, l’anima nera della sensualità e l’eterno ritorno all’infanzia. Nella Capitale erano le salette del Caffè Greco, gli amici scrittori e artisti, l’edonismo malinconico della Città Eterna. Ma cosa resta, oggi, di Ercole Patti, al di là del personaggio - uomo mondano, ricco di humour, combattuto tra ritrosia e vanità, imbattibile nell’arricchire la propria leggenda - che spesso ha fatto velo allo scrittore? Di per sé tutto. Che sta in un unico, monumentale, ricchissimo volume - Tutte le opere (La nave di Teseo, pagg. 3214+CXLIV, euro 60) - curato a quattro mani, con precisione e passione siciliana, da Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, coppia di ferro nella vita e flessibile nelle competenze: lei docente di Letteratura italiana all’Università di Catania, lui presidente dell’Istituto di storia dello spettacolo siciliano. Insieme - due anni di lavoro, centinaia di carte consultate, l’intero archivio Patti passato al setaccio, uno splendido inserto fotografico - ci regalano l’opera omnia di Patti. Tutte le raccolte di racconti, con il Diario siciliano, sei romanzi, i testi teatrali, quelli radiofonici per la Rai (uno in collaborazione con il conterraneo Vitaliano Brancati) e soprattutto, ed è la sezione più ricca di curiosità e inediti, tutte le recensioni cinematografiche e i testi giornalistici. Che sono moltissimi. Del resto con la stampa Patti inizia a bazzicare prestissimo: a quindici anni esordisce con una novella, Il chiodino, sul Corriere dei piccoli. Siamo negli anni Dieci. Pagamento: 25 lire. Il giovanissimo Patti invia alla redazione anche dei disegni, che però non vengono pubblicati. Ma tant’è. Da quel momento vuole essere uno scrittore. E non abbandonerà più i giornali: Il Popolo di Roma, poi Tempo ed Europeo. Ma collabora e vende pezzi (leggendaria la sua capacità di far pubblicare lo stesso elzeviro fino a dieci volte su testate diverse: era bravo, cinico, richiesto, pagato bene e infedele) a Omnibus, Il Messaggero, Il Mondo, La Stampa, Corriere della sera... A proposito: nella corposa biografia introduttiva, La vita e l’opera, molto in stile «Meridiani», i due curatori ricopiano diverse lettere di Patti a celebri direttori: Giulio De Benedetti, Ermanno Amicucci, Mario Missiroli, Alfio Russo, Giovanni Spadolini, ma anche a registi e gente del cinema, da Alessandro Blasetti a Ennio Flaiano. «Tutta gente che gli voleva bene e lo stimava. Ai suoi tempi Ercole Patti era un nome importante - ce lo presenta la curatrice, Sarah Zappulla Muscarà - poi è caduto nell’oblio. Decidere di pubblicarlo tutto serve a restituirci le cose migliori e anche quelle sconosciute: per fare venire fuori non solo lo scrittore, ma l’uomo». E l’uomo - riferiva chi lo frequentava, come Carlo Laurenzi, firma spettacolare del Giornale di Indro Montanelli - era un ottimista a ogni costo, che doveva fare i conti con una insuperabile infelicità di fondo, con mille fisse, come quella di retrodatare la data di nascita, soggetto a indicibili peccati di gola, abituato a dormire al cinema, soprattutto quando divenne critico cinematografico, una fulminea capacità di coniare nomignoli, tanto da emulare Cardarelli e superare l’insuperabile Flaiano... Mentre lo scrittore possedeva il più alto tra tutti i talenti, come gli riconobbe anche Montale: cioè «l’arte di farsi leggere». Valentino Bompiani, l’editore di una vita, lo adorava, come adorava l’altro siciliano della maison, Brancati: affetti entrambi dalla medesima bravura e dallo stesso dongiovannismo, più reale nel primo e più onirico nel secondo. «Nella prosa di Patti non c’è mai un grammo in più, è perfetta», diceva il grande editore. Soprattutto dai suoi libri, intinti in un autobiografismo smaccato e incantevole, esce una rappresentazione vera e importante di quell’irripetibile dopoguerra che ha segnato una geniale generazione di poeti, scrittori, registi, sceneggiatori, artisti, editori, tra via Veneto e la strada maestra di una società letteraria che, dopo, non c’è più stata. Oggi gli intellettuali si parlano via social, sostenendosi su Twitter e sparlandosi addosso nei retropalchi dei festival. A quell’epoca, almeno, le baruffe, con De Feo o Talarico, erano ai tavolini del Caffè Aragno. Ma quale è oggi l’Ercole Patti che resta? Il narratore puro? Anche. L’inviato speciale (in Oriente soprattutto) che tanti lettori ebbe in carriera? Forse. Di certo è il critico che tra gli anni Quaranta e i Settanta - dai Telefoni bianchi al neorealismo, dal cinema d’autore a quello di genere, spaghetti-western e 007 compresi - si godette (e oggi fa rivedere a noi) un ininterrotto film, con molta competenza, uno sguardo elegantemente letterario e nessuna ideologia. A proposito: è vero che sotto il fascismo lo scrittore finì in carcere, ma per ragioni di fimmine, non politiche (sembra che il potentissimo ministro del Minculpop Alessandro Pavolini abbia voluto far vendetta della bella Doris Duranti, attrice e sua amante, maltrattata dal Patti in una recensione) e comunque, anche dopo, non inclinò mai alla demagogia di sinistra. Ma torniamo al cinema, piuttosto. Non è tanto il suo approccio tecnico-cinefilo che resta (e pure c’è: sulla recitazione, i meccanismi della scrittura, i caratteri dei personaggi, il rapporto tra romanzo e schermo). Ma quello della scrittura e del ritratto di costume: sociale, se non sociologico. Come quando coglie l’essenza del divismo raccontando di Richard Burton e Liz Taylor, che nel chiostro dell’Hotel San Domenico a Taormina posano per i fotografi come davanti a un plotone d’esecuzione: lei bassina, con un cappellino ridicolo, una gonna che la fa sembrare incinta e le gambe come due bottiglie...

Ma così piena di «fatalità». Era il 1966. E già allora, anche lì, firma «in» al festival più chic, l’inquieto Ercole Patti rimpiangeva il suo vecchio mondo, la sua Sicilia. Torneranno i bei giorni, torneranno i pomodori al riso.

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