Se fosse ancora vivo - avrebbe due anni meno di Gillo Dorfles - alle prossime elezioni Renato Guttuso voterebbe Forza Italia. O comunque un partito moderato di centro destra, in spregio allo scherzetto che la cultura di sinistra gli ha tirato da quando non c'è più, dal 1987. Colui che un tempo esprimeva la linea ufficiale del Pci, uno da cui il segretario Togliatti prendeva ordini in nome di una coerenza legata al Picasso post Guernica, l'incontrastato dominatore dei salotti romani, «amante» del popolo e presente in ogni collezione della buona borghesia, è stato spazzato via, trattato come un paria, da quella stessa sinistra che ha imposto l'arte concettuale e fondato il sistema dei musei. I «progressisti», infatti, non amano la pittura. Se poi è figurativa, la disprezzano proprio. E Guttuso, galantuomo siciliano, non ammetteva nessun altro linguaggio che non fosse aderente alla realtà, facilmente comunicabile e capace di puntare alla pancia del pubblico. Al netto dell'ideologia, un grandissimo pittore, l'unico che si possa mettere in relazione con la grande stagione del Neorealismo cinematografico. Artista amato dagli intellettuali e dagli scrittori, vale quanto un Rossellini, un Germi, un De Sica. A oltre trent'anni dalla scomparsa, dunque, finalmente una rilettura, o quantomeno una riproposta. La GAM di Torino apre domani la mostra personale, con sessanta opere di qualità, per restituirgli lo spazio che merita. Non convince, però, il sottotitolo, «L'arte rivoluzionaria nel cinquantenario del '68», suggerito dal curatore Pier Giovanni Castagnoli. Di rivoluzionario Guttuso non aveva proprio niente. Amava e concepiva soltanto una pittura classica e reazionaria, colorata ed espressionista, illustrativa e propagandista. L'avanguardia non gli interessava. Venerava Picasso, l'artista e il personaggio, come un dio, conduceva una battaglia in prima persona contro la barbarie dell'astrattismo. E, non ultimo, amava tanto le donne, sull'esempio del conterraneo Brancati e del maestro di Malaga.
Leninista convinto, contrario dunque a ogni estremismo, Guttuso il '68 lo ha praticamente ignorato, come del resto buona parte degli artisti italiani trovatisi in mezzo per caso. Mario Schifano diceva di preferire una canzone alla rivoluzione. Emilio Isgrò racconta di aver sfilato a qualche corteo con la grazia di un indossatore. Alighiero Boetti, addirittura, ricordava di non essere mai andato a una manifestazione: «forse non ero neanche tanto d'accordo, miravo a pensare alle mie cose». In quell'anno di grazia Guttuso, peraltro, dipinge il ritratto di due giovani innamorati abbracciati, Gli addii di Francoforte, un quadro romantico che sarebbe stato bene sulla copertina di un disco di Claudio Baglioni. Le bandiere rosse de I funerali di Togliatti sono l'ultimo omaggio al suo Pci, che i sessantottini li vedeva con grande diffidenza.
Oggi non lo rifarebbe più, orgoglioso com'era, non riconoscendosi in quell'arte che definirebbe senza meno «una sega mentale». E poiché la pittura è un residuo reazionario non avrebbe nessuna esitazione a schierarsi dall'altra parte, non tollerando la pretestuosità, il verboso, l'autoreferenziale e il fine a se stesso.
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