Cultura e Spettacoli

Andrè Aciman:"Sono dottore in carta e mi fido dello stile ma non delle parole"

Lo scrittore da studente fece amicizia con un tassista tunisino sparasentenze e ultra scorretto. Ora quel suo alter ego è diventato un romanzo

Andrè Aciman:"Sono dottore in carta e mi fido dello stile ma non delle parole"

«Forse era la mia controfigura... Io senza maschera, senza catene, senza guinzaglio, incompiuto: io senza vincoli, io vestito di stracci, io furioso. Io senza libri, senza rifiniture, senza green card. Io senza kalashnikov». Non tutti incontrano il proprio alter ego, specie in gioventù, quando la vita ha ancora tanto da insegnarci. Ad André Aciman, nato ad Alessandria d'Egitto da una famiglia sefardita di origini turche, fuggito a Roma da ragazzino a causa di Nasser e poi trasferitosi a New York, è accaduto. L'autore di Chiamami col tuo nome , classe 1951, docente di letteratura alla City University di New York, lo racconta nel suo nuovo romanzo, Harvard Square (Guanda, pagg. 324, euro 18,50, traduzione di Valeria Bastia).

È studente ad Harvard nell'estate 1977, quando incontra al Café Algiers l'esplosivo tassista tunisino Kalaj, ovvero Kalashnikov, che spara come una mitraglia sentenze francofone su donne, americani, immigrati, capitalisti: ne ha una per tutti e tutte inappellabili.

«Chi ha conosciuto Kalaj lo riconosce subito: un Rodomonte, un Matamoro, iperbolico in tutto ciò che faceva e diceva».

Invece l'altro...

«L'altro sono io. Il narratore. Mite, sommesso, prudente».

Ma diventate amici.

«Intimissimi. Poi negli anni ho capito che forse anch'io ero iperbolico come lo era lui e lui forse era timido, ma voleva mostrarsi intollerante e spavaldo. Tutti e due esuli, tutti e due amavamo la Francia. Ma lui era un paria a Cambridge e faceva l'insider totale. Io ero immerso nella vita studentesca e mi sentivo tagliato fuori».

Che cosa fa di questa storia un romanzo?

«Mi avevano chiesto di raccontare davanti a un pubblico di un personaggio fantastico che avevo conosciuto. Ne ho conosciuti tanti, ma ho pensato subito a lui, stravagante, esagerato. Però mi sono subito reso conto che era impossibile raccontarlo dal vivo. Il medium giusto è la frase, il paragrafo. Ne ho fatto un racconto per la Paris Review . L'hanno amato. È nato il romanzo».

Tutto vero?

«Non soltanto racconto cose vere, ma anche sfacciate, svergognate come le ho vissute. Questa è la mia missione. O non farei lo scrittore. Eppure, la narrazione è un problema quando la si fa della vita dal vero. Per rendere il racconto fluido si deve saltare dalla A alla F, perché le lettere in mezzo sono dettagli non necessari. Nell'arredamento del romanzo, i mobili sono gli stessi del memoir , ma vengono spostati per spiegare la casa».

A tratti, Kalaj risulta disturbante. Xenofobo, machista, aggressivo...

«Aveva opinioni forti e non se ne vergognava. Anzi, le metteva in piazza. Alcune diatribe contro le donne le ho dovute tagliare, però».

A esempio?

«Quelle sull'orgasmo femminile. Per lui era un incubo. Da arabo, non era educato ad aspettare che una donna avesse il suo orgasmo, lo infastidiva. E lo palesava in modo scioccante. Questo, stranamente, agli occhi delle donne lo rendeva interessante. La sua espressione preferita era “Jumbo-ersatz”, con cui definiva l'America e il mondo occidentale».

Sarebbe a dire?

«Vuol dire “surrogati”. Se lo avessi ritenuto soltanto uno schifoso che si rivolta contro i valori, non gli avrei mai rivolto la parola. Ma diceva cose che ancora sostengo anche io, come il fatto che sia incomprensibile che la gente si alzi la mattina e mangi cose del tutto finte, prefabbricate, artificiali, che non esistono nel regno di Dio. Questo lo offendeva. Vengo anch'io dal Medio Oriente e nel mio profondo so che non bisogna mai trascurare la natura».

Ha conosciuto altri Kalaj?

«Se dovessi citare una persona ancora più simile a Kalaj, direi mia madre. Era selvatica come lui, completamente sordomuta. Sono certo che a Islamabad o a Kabul avrebbe tirato sul prezzo al mercato e i mercanti sfacciati si sarebbero burlati di lei. Ma le avrebbero voluto bene. Negli Stati Uniti la gente la aiutava, non la prendeva in giro, eppure lei la sentiva artificiale. Non credeva nelle parole».

Almeno lei ci crede?

«No. Non credo nel linguaggio. Sono uno stilista della lingua. La prosa deve essere superlavorata per rendere quel che sentiamo e il linguaggio puro è solo quello del tutto costruito, perché solo così riproduce al suo massimo quello che in fondo non è capace di trasmettere. Il mio modello è Proust, che ha buttato tutta la sua vita nella carta per azzeccare la realtà vissuta in emozioni per le quali non ci sono parole. Io sono “dottore in carta”, come mi diceva Kalaj».

Come è finita con lui?

«Dopo che Harvard mi ha “accettato”, non volevo più essere visto insieme a lui. Non gli rispondevo più al telefono e lui mi cercava spesso per avere favori. Avrei potuto non dirlo, camuffare questa mia slealtà amicale, ma è così che è andata».

Forse, inconsciamente, con questo romanzo ha voluto farsi perdonare...

«Non sono convinto che abbiamo un inconscio.

E se lo abbiamo, non lo conosco, non l'ho mai capito e mi interessa poco».

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