Cultura e Spettacoli

Torday, quel "dilettante" maestro del sorriso triste

Dopo oltre trent'anni vissuti da uomo d'affari, tornò al grande amore della giovinezza: la letteratura. Per diventare di colpo un bestsellerista

Torday, quel "dilettante" maestro del sorriso triste

Paul Torday non era un dilettante allo sbaraglio. Era un dilettante che sbaragliava. Comunque dilettante, in senso lato o stretto, lo era eccome, visto che fece capolino (o meglio, irruzione) nelle lettere britanniche alla veneranda e da lì in poi venerata età di 60 anni, nel 2006. Gli studi, con annessa laurea in Letteratura a Oxford, li aveva messi da parte, in scarsella a futura memoria, e aveva intrapreso con successo la carriera di uomo d'affari, nel campo dell'ingegneria fra l'altro, settore in cui le parole devono sempre inchinarsi ai numeri, o per meglio dire alle sterline. Trent'anni alle prese con petrolio e gas, trent'anni in cui trovò il modo di prendere due volte moglie e di generare due figli, trent'anni di riunioni, viaggi intercontinentali, grane e successi, persone incontrate e persone smarrite, caratteri e «tipi». E personaggi. Tanti personaggi, anch'essi a futura memoria.

«Quanto alla letteratura contemporanea - disse in un'intervista nel maggio 2009 - i miei ricordi sono fermi agli anni Sessanta. Il fatto è che sugli scrittori dei nostri giorni sono abbastanza ignorante. E devo fare il mea culpa. Ma ho una scusante: quando scrivo non ho tempo di leggere». Humour inglese? Certo, ma non solo. I panni di neo-Wodehouse gli andavano francamente stretti. La battuta, la situazione comica, i frizzi e i lazzi british non sono un elemento distintivo dei suoi libri, ne sono, al più, un condimento marginale che ti resta in bocca, ma senza uccidere il sapore del piatto, corollario dettato dall'uso di mondo, più che dal desiderio di motteggiare sorseggiando un tè.

È morto l'anno scorso, Paul Torday, il 18 dicembre, e non se ne sono accorti in tanti. Chi se n'è accorto, s'è detto: «Ah, quello del salmone nello Yemen!». Infatti, Pesca al salmone nello Yemen è il suo romanzo più noto, quello con cui esordì e che fu preso all'amo, grazie all'appetitosa mosca del boom in libreria, dalla vecchia lenza Lasse Hallström, il quale ne trasse, con la libertà romanticheggiante che gli è propria, il film Il pescatore di sogni. Titolo spiazzante; struttura in patchwork composta da lettere, e-mail, interrogatori, atti del parlamento britannico, diari; un progetto che non sta né in cielo né in terra; due storie d'amore che di dissolvono per motivi diversi e un'altra appena abbozzata; una sorprendente freschezza espositiva. Ed ecco servito il caso letterario dell'anno.

Intendiamoci, il sessantenne Torday non era mica venuto giù con la piena di un fiume scozzese dove pescava salmoni, non era mica stato toccato dalla grazia così, all'improvviso e a freddo. A 16 anni aveva vinto un concorso di poesia sponsorizzato dai Daily Mail e poi aveva continuato a tenere la penna in mano anche al di fuori delle incombenze universitarie. Ma senza pubblicare nulla. Si rifece con gli interessi sfruttando l'onda lunga originata del suo antieroe per eccellenza, il timido ittiologo Alfred Jones, dapprima vittima e poi artefice di un'avventura in cui l'utopia nuota a braccetto con la poesia. Giunsero così in rapida sequenza L'irresistibile eredità di Wilberforce (2008), con il parossismo alcolico del protagonista; La ragazza del ritratto (2009), rivisitazione del genere ghost story; Vita avventurosa di Charlie Summers (2010), commedia degli equivoci a tre voci; Il destino di Hartlepool Hall (2012), dove un'altra eredità si rivela ancor più insidiosa della precedente; Una luce nella foresta (2013), giallo-rosa che la regina del genere, Agatha Christie, avrebbe gustato volentieri. In questi libri il tono è lieve, fra disincanto (delle figure descritte e del lettore) e ironia.

Ma l'ultimo lavoro di Torday giunto da poco nelle nostre librerie, Colazione all'Hotel Déja-vu (edito, come i precedenti, da Elliot, pagg. 124, euro 14,50, traduzione di Luca Fusari), sebbene datato 2011 assume il sapore di un commiato dell'autore, di una sua riflessione finale sul senso impalpabile della vita. Un velo di tristezza permea infatti la storia di Bobby Wansbeck, ex politico inglese travolto dallo scandalo dei rimborsi spese gonfiati, una sorta di Tangentopoli londinese degli anni Novanta, il quale, dopo una lunga malattia, si regala una vacanza al sole del Mediterraneo. L'albergo dove alloggia e dove tenta, senza riuscirci, di stendere le proprie memorie, sembra quasi disabitato, collocato in un tempo sospeso sotto il cielo radioso. I sensi di colpa di Wansbeck restano sottesi allo smarrimento che lo assale, non esplodono nella confessione agognata. E il déja-vu di un'immagine ricorrente, una bella donna che esce dalla hall con il figlioletto, è un tarlo che gli rode la coscienza, confondendo realtà e immaginazione.

Niente noir, ma molto nero, come il sipario che si è chiuso sui monologhi di Paul Torday, lo scrittore del sorriso triste.

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