da Venezia
Classe 1954, nato e cresciuto a Carfizzi, un borgo dove ancora si parla l'albanese antico, l'arbëresh (i suoi compaesani sono i discendenti dei profughi d'Arbëria, scacciati dai Turchi alla fine del 1400), figlio di emigranti, emigrante lui stesso in Germania, parla quattro lingue, scrive - è al settimo romanzo - e insegna in una lingua che non è la sua, l'italiano. Carmine Abate è il vincitore del Campiello 2012. Un'altra vittoria per le storie d'Italia, dedicate alla terra e alla sua difesa, e per le storie di famiglia: nel 2010 Accabadora di Michela Murgia (Einaudi), poi Non tutti i bastardi sono di Vienna di Andrea Molesini (Sellerio) e quest'anno Abate con La collina del vento (Mondadori), che si è imposto con grande distacco, 40 voti. Una saga familiare calabrese, protagonisti gli Arcuri, che per un secolo lottano per mantenere uguale a se stessa la loro collina del Rossarco, dalla «forma allungata e sinuosa di una barca capovolta davanti al mare», dove il vento è profumato e gli ulivi secolari. Roba da far rodere il fegato, una proprietà come quella: «Quando una famiglia come la nostra fa progresso, la gente imbidiosa usa la fantasticheria al posto della crozza». Gli Arcuri sono così, schietti e ostinati come l'acqua che zampilla dalla fonte. E Carmine Abate fa la stessa impressione.
Un secolo di difesa della terra per arrivare ai giorni nostri, a una donchisciottesca battaglia contro le pale eoliche.
«Una battaglia che nasce dalla storia. Prima contro i soprusi del podestà latifondista durante il fascismo, poi contro gli speculatori edilizi, che hanno rovinato la costa calabrese, che vogliono un villaggio turistico sul punto più alto della collina. Poi i signori del vento con i loro parchi eolici. In Calabria ce ne sono ovunque».
È contro le energie alternative?
«Sono favorevole all'eolico, ma non si possono impiantare pale nei posti più belli, nelle zone archeologiche o a trenta metri da una casa. È uno scandalo».
Torri alte ottanta metri: nel romanzo il patriarca Arcuri dice all'ingegnere forestiero di schiaffarsele in un posto innominabile. E aggiunge: «Volete solo arricchirvi sulla nostra pelle».
«Le pale rappresentano tutto ciò che non rispetta il paesaggio, la bellezza, la storia, la memoria. Se vogliamo salvarlo, dobbiamo rinunciare a guadagnare il massimo. Mettiamo le pale in aree industriali dismesse. Lì non c'è altrettanto vento? Guadagneremo di meno. Se dove c'è tanto vento, come in Sardegna, c'è anche la favolosa spiaggia di Stintino, allora la distruggiamo? La realizzazione non è etica. E nemmeno l'idea».
Ma gli Arcuri esistono?
«Sono inventati. Ma non troppo. In Calabria qualche famiglia così c'è, rara come la rondine albina. Magari grazie a questo libro ce ne saranno di più».
I libri cambiano la realtà?
«Quando ho cominciato a scrivere, a 16 anni, avevo questa illusione. Che la letteratura potesse modificare, anche solo di un millimetro, la visione delle cose. È rimasta un'illusione. Ma la sento sempre dentro, una voce che non mi ha mai abbandonato. Mi ripete che si può: raccontare una storia cruciale. Gli Arcuri non sono didascalici né retorici: fanno le cose e basta».
E ha mai visto accadere uno di questi cambiamenti?
«A uno dei miei studenti italiani in Germania tanti anni fa accadde di essere picchiato dai naziskin davanti al Duomo di Colonia perché andava in skateboard. L'ho messo in uno dei miei racconti. Quando lo leggo nelle scuole, qualcosa accade».
Questo romanzo esiste per una promessa a suo padre. Ce la racconta?
«Dentro di me gli promisi che avrei messo in un libro le storie che lui mi raccontava negli ultimi mesi della sua vita: sull'occupazione delle terre, sull'emigrazione. Anche le più scomode e segrete. Affinché non morissero con lui. Credo in un passaggio del testimone. Ho mantenuto quella che in arbëresh chiamiamo Besa: la fedeltà alla parola data».
Un secolo, l'Italia, la terra, una famiglia protagonista: i punti in comune con Canale Mussolini di Antonio Pennacchi sono molti.
«Ho letto il libro. Le differenze ci sono, ma c'è la stessa famiglia. Che crede in certi valori e non si arrende mai. E forse con Pennacchi abbiamo anche una visione della vita simile».
Che ne pensa del recupero della famiglia in letteratura?
«Banalmente, è il microcosmo fondante della società e per uno scrittore una possibilità infinita di raccontare. I miei libri nascono da un'immagine.
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