Ubah Cristina Ali Farah: «Il mondo è ibrido, non ci sono più colonie»

«Q uesto romanzo racconta la storia di un ragazzo nato da genitori somali che cresce in Italia ma deve fare i conti con un passato non risolto. Sarà una fiaba che gli è stata raccontata da bambino lo strumento attraverso cui cercherà di interpretare il mondo che lo circonda». Così Ubah Cristina Ali Farah, autrice di Il comandante del fiume (66thand2nd editore, pagg. 208, euro 16), ci racconta il libro che l'ha portata in Italia a raccontare il ponte tra avventura coloniale e contemporaneità legata all'immigrazione che lega oggi Italia e Somalia.

Nata a Verona, cresciuta a Mogadiscio, è figlia di un italiano e di una somala e del Paese africano ha lo sguardo e la memoria, due realtà che condividerà agli incontri della kermesse milanese Bookcity di cui è ospite (oggi alle 19, Castello Sforzesco, domenica alle 10,30, Università degli Studi, in un convegno sulle nuove scrittrici italiane). «Una memoria smette immediatamente di essere lontana nel momento stesso in cui condiziona le nostre vite presenti in un determinato luogo», ci spiega. «Il mio romanzo è interessante per un italiano innanzitutto perché è scritto in italiano, la mia lingua madre, ma soprattutto perché l'immaginario del protagonista è anche abitato da immagini, miti ed esperienze appartenenti alla cultura somala. Credo che questa sia la direzione in cui sta andando l'Italia e il mondo in generale: identità molto più complesse e ibride che in passato».

È tuttavia interessante anche per i somali: attraverso il protagonista, il piccolo Yabar, e la sua corte parentale e di amici, si parla del trauma della guerra e di come, volenti e nolenti, lo si trasmetta ai propri figli: «Perché in Somalia - puntualizza - c'è una guerra civile in corso da 24 anni. Forse è il momento che certe responsabilità vengano riconosciute». La Roma del Comandante del fiume è fiabesca, trasfigurata: i luoghi che conosciamo per abitudine e geografia, l'Isola Tiberina, Castel Sant'Angelo, il Tevere stesso, si scoprono mitici in maniera inedita. Ma che dice Ali Farah dell'idea di Italia in Somalia, che cosa è rimasto del trascorso coloniale? «Per una certa generazione di somali l'Italia è molto presente sia nella pratica quotidiana che nella memoria. Pur non vivendo in Italia, molti seguono le vicende politiche del Paese, i telefilm, mangiano gli spaghetti, si esprimono elegantemente in italiano. Il colonialismo ha scombussolato l'assetto sociale e politico della Somalia. Eppure la storia, stravolgendo vecchi scenari ne crea di nuovi. Le scelte di chi ci ha preceduto, nel bene e nel male, condizionano le nostre vite. Mio padre partì da Mogadiscio per studiare in Italia grazie a una borsa di studio. Senza questa perturbazione del corso della storia, io non sarei mai esistita.

Piuttosto è qui in Italia che è avvenuta una completa rimozione». Ma a Mogadiscio tornerebbe a vivere? «Mi piacerebbe. È la città in cui sono cresciuta. Tuttavia le persone che amavo non sono più lì e un luogo svuotato dagli affetti non è più lo stesso».

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