Alla fine, per gli occhi del mondo i loro ruoli s'erano invertiti. L'altero e solido borghese fu accusato, nella sua civilissima America che l'aveva accolto come un messia, d'essere un infido «comunista», e lo sprezzante e disordinato filo-proletario venne ricoperto dal velo pietoso della compassione che si concede a un vecchio, rincoglionito, conservatore.
Ma i due non erano cambiati. Il mondo, quello sì, era cambiato, dopo esser stato messo a soqquadro dalla tempesta del nazismo. No, il Mago e Bert non erano cambiati di una virgola. L'artista sottile e profondo cresciuto abbeverandosi alla fonte miracolosa della triade Schopenhauer-Nietzsche-Wagner, e il drammaturgo geniale e arruffato, capace di inventare un nuovo linguaggio, quel «teatro epico» costruito come una zattera per traghettare le masse sull'isola beata della cultura. Erano le lenti bifocali e ingannatrici del potere (dei poteri: politico, economico, editorial-giornalistico) a mostrarli diversi... Strano destino, quello di Thomas Mann e di Bertolt Brecht, nella nervosa e incerta temperie tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta: il pompiere s'era tramutato in incendiario e l'incendiario era derubricato a pompiere.
Invece in Bert e il Mago (Nutrimenti, pagg. 524, euro 22, da oggi nelle librerie) ci si presentano nel centro esatto degli occhi di bue che Fabrizio Pasanisi, addetto alle luci, oltre che valente regista e sceneggiatore del suo romanzo-saggio, dedica ai protagonisti di una colossale rappresentazione. Rappresentazione della volontà, viene da dire, pensando a uno dei numi tutelari del Mago. Ma soprattutto rappresentazione della follia. Che non fu soltanto (e qui per una volta Mann e Brecht concordano) quella del volgare e ottuso imbianchino austriaco, bensì anche quella di un popolo troppo incline all'auto-annullamento nel nome dell'obbedienza.
Rileggere una porzione consistente del Novecento, quella che va da un dopoguerra all'altro, tramite Bert e il Mago è una lunga avventura in cui l'antiteticità dei due mattatori persiste, unico filo conduttore in una matassa mai sbrogliata del tutto, nel calderone ribollente che comprende la repressione della rivolta degli spartachisti, l'incendio del Reichstag, i roghi dei libri in piazza, l'annessione dell'Austria, la guerra, il processo di Norimberga, i primi passi della ricostruzione dell'Europa... Da un lato la compostezza classica dei Buddenbrook e la cristallina metafisica della Montagna incantata, dall'altro la trasvalutazione dei valori dell'Opera da tre soldi e l'urlo assordante di Madre Coraggio e i suoi figli; da un lato la lezione di Goethe, dall'altra quella di Villon; da un lato il silenzio di uno studio pieno di fumo e di idee, dall'altro il baccano di un palcoscenico affollato di attori e di rabbia. Per Mann la Germania è come San Sebastiano: pur trafitta dalle frecce, mostra il sorriso della grazia. Per Brecht la Germania è una madre che trascura la prole.
Ma sia Bert sia il Mago si macchiarono di una colpa che, considerata a posteriori, vale come un segno dei tempi, come un monito inascoltato: sottovalutarono quelle camicie brune. «Un fenomeno circoscritto, tipicamente bavarese...», disse il primo. «Una pagliacciata», tagliò corto il secondo. Del resto i loro sguardi puntavano altrove, più in alto: verso la realizzazione del comunismo quello di Bert, verso la tutela di un mondo che, in anticipo sulla presa del potere da parte di Hitler, si stava ripiegando su se stesso. Come molti altri, entrambi scontarono con l'esilio volontario quel peccato originale. Alla diagnosi errata seguì una terapia fatta di palliativi in giro per il mondo. Intorno a loro, mogli e figli, amici e maestri, amori disordinati (quelli dell'egoista Bert) e inconfessabili (quelli dell'omosessuale Mago). C'è la consonanza fra il vulcanico e fluviale Brecht e il sottile e caustico Karl Kraus, e quella fra il reverente Mann e il riverito Hauptmann, vincitore del Nobel diciassette anni prima di lui; quella fra l'istintivo Brecht e il riflessivo Benjamin e quella fra Mann e Adorno, chiave di volta per l'edificazione del Doctor Faustus, che Thomas chiamava «il mio Parsifal».
E ci sono anche i loro fugaci incontri da cui emergono due personalità contrapposte. Negli Stati Uniti, l'1 agosto del '43, erano entrambi in casa del regista Berthold Viertel, con altri esponenti della cultura tedesca. «Quanto tempo ci ha messo - sbottò Bert rivolto al Mago - per accorgersi che Hitler non era il buffone di Amleto, non era il figlio un po' discolo in un'opera letteraria? Quanto tempo ci ha messo per capire che l'impolitico, come un tempo amava definirsi, è quello che non vuole sporcarsi le mani?». E l'altro di lì a poco rispose tornando a Nietzsche: «Quando parlava dell'atteggiamento dei tedeschi nei confronti della morale, scriveva che essi sono capaci di grandi cose, ma è difficile che le mettano in pratica. E sa perché? Perché appena possono, ubbidiscono, a causa della loro indolenza. Ubbidire, è questa la loro virtù, quella che oggi è stata la colpa più atroce!».
Sì, strano destino, quello di Bert e il Mago: due rette divergenti che s'incontrano. Nel '54 il premio Stalin per la pace, più che un riconoscimento, un ossimoro, era stato assegnato al Mago.
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