Damiano, la «Siringa» che punge i comunisti su lavoro e pensioni

Il soprannome derivato dall’altezza. E l’amicizia con Fassino che ha portato il ds alla guida del ministero dopo la carriera sindacale

Così alto, scarno e austero da sembrare un missionario piovuto nel governo dal lontano Borneo, a Cesare Damiano, starebbe bene il nome di Evangelizzatore. Invece, lo chiamano «Siringa». Laica allusione al fisico tubolare del ministro ds del Lavoro. Succede quando si ha l’aria di un camaldolese ma si è cresciuti tra i metalmeccanici alla cui inventiva si deve il soprannome.
Siringa è da capo a piedi, cioè per la bellezza di 190 cm, un sindacalista della Fiom-Cgil, ruolo da lui ricoperto per lustri e di cui è impregnato ogni atomo del suo corpo filiforme. Ha scritto venti libri, 19 dei quali dedicati alla tute blu, da «Guida alle richieste dei metalmeccanici» a «Contratto metalmeccanici 1999», fino al fondamentale «Fondo pensione nazionale dei metalmeccanici». Unica pausa in tanto accanimento, l’ultima fatica: «Fassinéscion. L’Italia vista da Piero in 100 vignette», distribuito con L’Unità nel 2005. Un volumetto di schizzi, di cui Damiano è maestro, consacrati a Fassino, leader ds. Piero è il suo idolo, il suo protettore, il suo siamese. Entrambi piemontesi, hanno le stesse idee ragionevoli, la figura a grissino, l’identica malinconia. La sola differenza è la barba. Siringa la porta come uno stemma ricamato tra naso e mento. Piero non la porta affatto, orgoglioso della sua faccia a spigoli.
Imposto a Prodi da Fassino, Damiano è il suo ventriloquo nel governo. Parla poco e quel che dice è scontato. Ripete di continuo: «Faremo come Zapatero». Applica il detto a ogni circostanza. Sia se critica, blandamente, la legge Biagi: «Superare la temporalidad ma senza abolire la flessibilità». Sia quando, un po’ più estremista, propone di «tassare le pensioni d’oro». Poche altre perle sono uscite dalla sua parca bocca. Si possono citare la più volte ripetuta «disincentivare il lavoro precario, incentivare quello a tempo indeterminato» e la ferma intenzione, rimasta tale, di «abbassare la soglia della pensione di anzianità sotto il tetto dei 60 anni voluto dal governo precedente».
Damiano è un riformatore moderato o, detto in sindacalese, un «gradualista», ossia l’opposto di un Rodomonte spaccamontagne. Nessuna meraviglia che sia maldigerito dai sessantottini dell’Unione, tipo Fausto Bertinotti o Paolino Ferrero. Questa ostilità ne ha fatto un bersaglio degli scalmanati. L’assaggio si è avuto ai primi di novembre con la sfilata antigovernativa della Fiom, alla quale partecipavano anche alcuni sottosegretari. I Cobas, sindacati che considerano pappemolli i confratelli della Triplice, hanno inalberato un cartellone con la scritta: «Damiano servo dei padroni, vattene». Letto l’insulto, i sottosegretari suoi colleghi hanno continuato giulivi a saltellare come sanculotti al centro del corteo senza fare una piega. Anzi, il ministro della Solidarietà sociale, Ferrero, ci ha messo il carico da undici. «Sul lavoro e la precarietà il governo ha fatto poco», ha dichiarato chiamando direttamente in causa Damiano.
Siringa ci è rimasto male. Ma a modo suo. Anziché piegare le lunghe gambe e abbattersi di schianto sulla poltrona ministeriale, si è eretto caparbio sul busto e ha scandito con lenta parlata cuneese: «Gli attacchi violenti riportano al periodo buio degli anni ’70». Ha aggiunto, riferendosi a Ferrero, tanto più traditore in quanto corregionale della Val Germanasca: «È sconcertante che al governo non ci si accorga di ciò che abbiamo fatto contro il precariato» e cupamente ha concluso: «Il fuoco amico mi amareggia». A sua difesa, Damiano elenca orgoglioso le proprie imprese. Nella Finanziaria ha inserito il taglio del cuneo fiscale e incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato. Ha proposto la staffetta tra anziani e giovani nel posto di lavoro e, soprattutto, ha emanato la circolare sui call center. È questo il suo fiore all’occhiello. In sostanza, ha cercato di rendere meno aleatorio il lavoro di una legione di telefonisti distinguendo tra quelli che rispondono alle telefonate degli utenti e gli altri che chiamano per proporre servizi. I primi da inquadrare come lavoratori dipendenti, i secondi come autonomi. Ha perfino spedito gli ispettori alla «Atesis» per ingiungere all’ammiraglia dei call center di mettere in regola 3.200 precari. Per tutta risposta, gli imprenditori hanno minacciato licenziamenti. Così l’iniziativa damianea è finita a bagnomaria. Prova provata che la precarietà è una triste realtà dei tempi grami che non sarà certo una circolare a abolirla. Concluso l’elenco dei propri meriti, Siringa tace invece il suo delitto: avere dato via libera al trasferimento del Tfr all’Inps, scandaloso favore al sindacato confederale e al suo affarone dei Fondi pensione.
Dopo l’affronto dei Cobas, il ministro ha dovuto subire quello dei no global. Era a Venezia, sua città elettiva e doveva parlare a un convegno, quando Luca Casarini, uno sfaccendato che da anni pontifica sul lavoro, ha fatto irruzione nella sala con un manipolo di «disobbedienti» e lo ha sfrattato. I convegnisti si sono dovuti rifugiare altrove per riprendere i lavori. L’estromesso ha ricevuto dal Cile la telefonata di solidarietà di Fassino e il compatimento di molti altri, compreso l’osso duro Bertinotti. Ma era la conferma che Damiano è nel mirino. Le sua faccia, accompagnata da insolenze, campeggiava anche venerdì scorso nel corteo di Roma dei ricercatori universitari.
L’impopolarità di Siringa, frutto di un governo impantanato, fa torto a un uomo serio che svolge con tutta l’anima il suo compito. Giorni fa si è svolta una riunione di capi del personale di grandi aziende pubbliche. Damiano era invitato. I ministri in questi casi, se ci vanno, restano un’ora e via. Siringa invece, non solo è venuto, ma ha parlato a lungo e si è fermato a cena. «È un comunista fino alla punta delle scarpe e ha diffuso un clima da collettivo. Ma, vivaddio, ci ha fatto sentire che esistiamo. Chapeau», mi ha detto uno di loro, ancora sotto choc per lo stupore.
Siringa è nato a Cuneo 58 anni fa. Del montanaro cuneese ha tutte le caratteristiche. Testardo, scrupoloso, non si piange addosso, si tira su le maniche. Cuneo è la provincia meno assistita d’Italia. Non ha mai avuto un’azienda parastatale, tutto è iniziativa privata. Per amore della sua città, Cesare ha coniato l’espressione «cuneo fiscale», termine che senza questa giustificazione sentimentale sarebbe privo di senso poiché indica semplicemente la diminuzione dei contributi a carico del datore di lavoro.
Il babbo del futuro ministro è stato il creatore del Caffè del Corso, oggi la più famosa gelateria cittadina. Allora però, erano i miseri anni ’50 e gli affari languivano. Così Cesarino, appena dodicenne, dovette seguire a Torino la famiglia in cerca di fortuna. A Cuneo non sarebbe più stabilmente tornato. Oggi, ci capita per riabbracciare la sorella e la nipote.
A Torino, i Damiano ripresero il tran tran. Ottenuto il diploma tecnico, il ragazzo entrò come impiegato alla Riv-Skf, satellite Fiat. Dopo due anni, smise per sempre di lavorare, almeno per come si intende comunemente il lavoro. Infatti, venne inserito nella Fiom-Cgil e lì ha fatto tutta la carriera. Fu prima responsabile degli impiegati tecnici della Fiat e poi degli operai della Officine meccaniche di Mirafiori nella mitica V Lega, tempio dell’organizzazione metalmeccanica. Arrivarci non è da tutti. Il sulfureo Bertinotti, per fare un esempio, non ci è mai riuscito. Ma Cesarino aveva già quei tratti di moderazione prudente che lo rendevano gradito. È un centrista dalla culla. Passò poi alla Olivetti, completando il giro dell’allora grande industria piemontese. Troppo freddo per accendere gli animi, non è mai stato un vero leader. Ma ha firmato contratti importanti e il suo curriculum sindacale è impeccabile.
In quegli anni diventa Siringa e si scopre una vena pittorica. Mentre gli altri parlavano nelle riunioni affumicate, Cesarino era sempre con la matita in mano a ritrarre i compagni sui fogli degli appunti. Se toccava a lui prendere la parola, la faccia gli si riempiva di tic. Anche adesso, nello sforzo del discorso, gli ballano le guance e un occhio si chiude a intermittenza. Fu quello il periodo in cui, correndo la cavallina, si votò alla scapolaggine. Siringa è un single inveterato. Ha avuto amori a iosa e ne ha tuttora in corso, ma nonostante storie importanti, si è sempre tenuto alla larga dall’altare. Lungi da lui essere bacchettone. Anzi, contro l’apparenza da mummia egizia, era un impenitente organizzatore di feste da ballo Fiom.
Proseguendo nella carriera, è stato dieci anni capo della Fiom-Cgil del Piemonte con epici scontri col subcomandante Fausto. Poi è passato a Roma come vice di Claudio Sabbatini, il despota della Fiom morto tre anni fa, che considerava tutti ragazzotti, Siringa in primis. Il suo ultimo atto da sindacalista è stato nel 2000 la nomina a segretario generale della Cgil del Veneto. Era nata una baruffa e ci voleva un paciere. Poi avvenne la rottura col capo in testa della confederazione, Sergio Cofferati. Costui, per la corsa alla segreteria Ds nel 2001, si era schierato con Giovanni Berlinguer. Il Nostro, tifando Fassino, era a disagio. Così, vinta la gara, Piero lo chiamò a Roma e lo fece responsabile ds del Lavoro prima di spedirlo al governo.
Damiano ha mantenuto la residenza a Venezia. Si è innamorato contemporaneamente della città e di un sua graziosa cittadina. Vive in affitto a Cannaregio, quartiere popolare, in coerenza col credo metalmeccanico. È talmente discreto che i veneziani si sono accorti di lui solo dopo la nomina a ministro. Colti alla sprovvista anche gli agenti della Digos.

«Ostrega! Proprio il ministro del Lavoro doveva capitar con tanti no global che g’avemo qua», hanno esclamato coi sudori freddi.
Così, mentre si accomiata da noi, Siringa inietta adrenalina nelle vene dei poliziotti che lo seguono ansiosi tra calli e canali.

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