Lapparizione del nuovo romanzo di Cesare De Marchi (La furia del mondo, Feltrinelli, pagg. 396, euro 17) rappresenta levento più rilevante di questa stagione letteraria: per la minuziosa ricostruzione di unepoca, il tardo Settecento italiano e tedesco, cittadino il primo, provinciale il secondo; per la sicurezza con cui vi si affrontano temi cospicui e profondi, il cui statuto congetturale garantisce a un tempo la loro attrattiva e la loro irrisolvibilità; e per i personaggi che lo animano, perfettamente compiuti non a dispetto, ma in virtù della loro angosciosa irresolutezza.
Siamo a Roma, nelle stanze che accolgono gli alti prelati. Il tedesco cattolico Rupprecht Radebach non nutre ambizioni né altre aspirazioni, quasi fosse ossessionato dallidea antichissima che ogni azione implichi una violenza, un torto. Un giorno, leggendo in segreto il De servo arbitrio di Lutero, si ritrova a sperare che quel testo curi il senso di colpa che prova a causa della debolezza dei suoi desideri, della sua mancanza di volontà. Abiurata dunque la fede romana, e abbandonata con essa una promettente carriera ecclesiastica, fa ritorno in Germania, in un villaggio del Hohenlohe, per farsi pastore protestante e umile maestro di scuola. La cura luterana, però, non lo guarisce. Infatti che la libertà, ammessa lesistenza di un Dio onnipotente, sia impossibile è meno una convinzione teologica e più la via di fuga da unoscena e inoppugnabile ipotesi sullumanità, come rivelano le tesi esposte al migliore dei suoi allievi, Abel. Tesi che sarebbero raggelanti, se non fossero verità sotto gli occhi di tutti. Esisterebbe una cadenza, un ritmo diabolico che tiene insieme la storia e ne articola i due aspetti essenziali: le stragi, e il rapporto tra vincitori e vinti. «Il sangue è servito ad estirpare idee e bisogni di altri uomini. E vedi, dopo duecento anni i discendenti di quelli, liberamente e con piena convinzione, perfino con ardore di sentimenti, professano le stesse credenze che erano state seminate nel sangue dei loro avi».
È chiaro che un simile convincimento non mini solo la visione provvidenzialistica della storia, ma qualsiasi processo di apprendimento, qualsiasi pedagogia. «Che i figli abbracciassero le idee dei carnefici dei loro padri era atroce». Per salvare il proprio ruolo Rupprecht prova a convincere lallievo che esiste un margine, per quanto piccolo, di scelta: «Dentro le viscere della storia, sotto i grandi eventi di sangue, gli sconfitti dipanano un filo che rappresenta la continuità dei perdenti di contro a quella dei vincitori. Sono loro, i sommersi. Tra loro puoi cercarti un padre adottivo, se non vuoi il padre naturale che ti hanno dato i vincitori». Il maestro parla a ragion veduta: sa che egli stesso, di fronte al ragazzo, è un vincitore, cioè un assassino. Appena ne ha percepita la capacità di apprendimento ha infatti strappato Abel al mondo contadino. Ha convinto il padre del bambino a rinunciare a due braccia che per quanto fragili avrebbero potuto aiutarlo a lavorare la terra, sì che il padre di Abel si impiccherà a una trave del fienile forse anche a causa di questa rinuncia, perché è vecchio e non ne può più di rompersi la schiena sui campi. Perché allora trascinare Abel nel gran mondo, perché spingerlo a studiare fino a procurare a lui, figlio di contadini, un posto nel ginnasio? Perché Rupprecht è convinto che i libri, la scrittura siano un riparo dalla «furia del mondo»; e perché Abel, come lEmilio di Rousseau, non ha volto, non vuole niente ed è solo un ricettacolo: ha un talento straordinario ma nessuna vocazione, e dunque non si rischia di guastarne lo spirito insufflandogli una melanconia a lui estranea. Niente redime gli studi di Abel; non li redimono, per così dire, né Wilamowitz né Nietzsche: né lorgoglio di rispettare il significato di una tradizione; né lo stupore di scoprire che quelle tracce di inchiostro sono ancora potenti, sanno ancora farsi carne e materia. Abel studia come un burocrate.
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