Nella girandola quotidiana di dichiarazioni confuse, di concetti approssimativi e di cifre impazzite sui conti pubblici, ieri risanati, oggi disastrati e domani chissà, si staglia allorizzonte larrivo di una nuova «democrazia popolare». Con tutto ciò che questo termine storicamente si porta dietro. Ma andiamo con ordine. Alla sua prima uscita al Lingotto Walter Veltroni ha annunciato una legge per la riforma della politica. Unespressione inquietante. Per legge si mutano le istituzioni o il sistema elettorale, che non sono la stessa cosa della politica anche se con essi la politica deve fare i conti. Ma di Veltroni tutto si può dire tranne che non sia uno sveglio e intelligente. Se ha usato quellespressione qualcosa avrà in testa. Non ha ancora il coraggio di dirlo, ma subito si sono messi al lavoro alcuni suoi sponsor. Il più autorevole tra questi, Carlo Azeglio Ciampi, il giorno dopo ha lanciato lidea che un parlamentare non dovrebbe fare più di due legislature. Naturalmente Ciampi non spiega la «ratio» di questa proposta, ma chi ha qualche anno sulle spalle come noi non può non ricordare che questa era la tradizione del vecchio Partito comunista e del suo centralismo democratico.
Loligarchia comunista del tempo, gestendo «centralisticamente» le preferenze, decideva chi veniva eletto, ma l80 per cento dei suoi parlamentari sapeva anche che dopo due legislature tornava nel partito o nel sistema delle cooperative e quindi era sempre in fila per due a comando obbediente e silenzioso. Ciampi propone la stessa cosa. Egli sa che molti sono contro il voto di preferenza e pertanto le ristrette oligarchie dei partiti continueranno a designare i parlamentari, ridotti sempre più a tecnici della legislazione, privi di radicamento popolare e di rappresentanza sociale. Dunque, secondo Ciampi, due turni e poi a casa. Così facendo, il Parlamento, nella maggioranza dei suoi membri, sarà solo docile carne di cannone, pronto allo scontro parolaio da cui siamo ogni giorno sommersi. Non a caso quel Partito democratico che vuole le primarie per eleggere il suo segretario («una testa un voto» è lo slogan di Arturo Parisi) non dà poi a quegli stessi cittadini il potere di scegliere con il proprio voto chi li deve rappresentare in Parlamento.
In questa forbice autoritaria che unisce designazione e precarietà giustamente si fa strada la perversa teoria delle quote. La più antica è quella delle quote rosa per portare più donne in Parlamento. In tutta Europa non cè un solo parlamentare donna figlia delle quote, ma tutte sono il frutto generoso di battaglie democratiche. Non a caso nel Parlamento europeo eletto con il voto di preferenza le donne sono il 30 per cento, quasi una su tre. E lo stesso Sarkozy, che pure ha portato sette donne al governo, non ha voluto mai ministri che non fossero parlamentari eletti dal popolo. La «quota riservata», dunque, è sempre un concetto autoritario e per evitarla cè solo la strada democratica, dentro e fuori i partiti con il voto di preferenza. Ma le ipotesi di quote aumentano vertiginosamente.
Lultima è quella anagrafica. Più giovani dentro le istituzioni, si dice giustamente da più parti, ma a condizione, si sussurra, che siano cooptati, naturalmente. E perché no gli over 65 che sono ben 11 milioni? Ma una democrazia seria che se ne fa di un personale politico, giovane o anziano che sia, cooptato, designato e precarizzato non per volere del cittadino-elettore, che ti premia o ti manda a casa, ma per decisione di una ristretta cerchia di dirigenti di partito? Su questa strada ben presto tutti i grandi interessi organizzati nel Paese richiederanno anchessi una rappresentanza nelle istituzioni parlamentari, scivolando così inevitabilmente nelle camere delle quote e delle corporazioni. E il Paese non potrà che declinare.
Geronimo
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