Derrida predica contro il Dio dell’audience

Il titolo è ruffiano: «... soprattutto: niente giornalisti!», fatto apposta per incuriosire proprio i giornalisti, categoria che spesso ostenta (guardandosi bene dal praticarla) l’autoironia. Il sottotitolo, invece, è inquietante: Quel che il Signore disse ad Abramo, fatto apposta per mettere in allerta i fedeli delle tre religioni monoteiste. Ma in realtà questo libretto, trascrizione di un intervento di Jacques Derrida a un convegno su religione e media del dicembre ’97 (Castelvecchi, pagg. 76, euro 8, traduzione di Tiziana Lo Porto), non se la prende né con gli imbrattacarte di quotidiani o periodici vari, né tantomeno con il povero Abramo e il suo Dio. Il vero obiettivo è la televisione.
Certo, Derrida parte chiedendosi che cosa il Signore, una volta formulato l’ordine di sacrificare Isacco, abbia raccomandato ad Abramo. E si risponde ipotizzando queste parole: «Dunque, niente mediatori tra noi, nessun media tra noi. È necessario che la prova che ci tiene uniti non diventi una notizia». Abramo, naturalmente, obbedisce alla consegna del silenzio. Ma poi il filosofo francese scende prontamente dal monte Moria per andare in salotto e accendere la tv. Perché, fa notare, oggi assistiamo, in spregio all’obbedienza di Abramo, proprio per il tramite della televisione alla «mondialatinizzazione» del fenomeno religioso. Negli Stati Uniti soprattutto, ma un po’ in tutto il mondo occidentale, in video passano eventi religiosi (miracoli compresi), non soltanto discorsi sulla religione. Ebbene, questa spettacolarizzazione trascina con sé, avverte Derrida, una «spettralizzazione», anzi, una «spiritualizzazione spettralizzante o virtualizzante». Qui siamo oltre McLuhan: il mezzo, non soltanto è il messaggio, ma lo fa, lo crea. E, creandolo, lo uccide: ma lo uccide per davvero, il suo braccio non viene fermato come quello di Abramo nell’istante fatale.
All’epoca dei Lumi si diceva che il matrimonio fra scienza e religione non è possibile. Secondo Derrida è vero il contrario: «ereditiamo religioni che sono palesemente fatte per relazionarsi con la scienza e la tecnica», dunque anche con la televisione, attraverso cui «si può quasi mettere il dito sulla piaga». Ma «quando si vede non c’è più bisogno di credere», quindi «ciò che viene diffuso come media, come telemedia cristiano, è in qualche modo una morte di Dio». Oggi noi abbiamo questa particolare forma di fenomenologia dello spirito che è «la religione dei media, ovvero la religione che i media rappresentano, incarnano, rivelano». Anche la tv, dunque, concorre a renderci vittime delle illusioni trascendentali paventate da Kant, visto che «guardiamo la televisione come se ciò che fa vedere sia la cosa in sé».
Derrida cita il caso del signor Nahman Bitton, immortalato da un fotografo nell’atto di appoggiare il proprio telefono cellulare al Muro del Pianto per trasmettere al Signore la preghiera di un suo familiare (la foto è tra l’altro sulla copertina del libro di un amico di Derrida, Maurizio Ferraris: Dove dei? Ontologia del telefonino). Forse la fede nella tecnologia sta sorpassando quella in Dio? Lo scopriremo solo vivendo, direbbe il poeta. Intanto, accontentiamoci di fuggire dalla schiavitù panottica del video imboccando la scorciatoia del caro, vecchio senso di colpa. «La televisione non è temuta in quanto spettralizzazione spiritualizzante, ma in quanto tentazione di una nuova idolatria, di un culto pagano dell’immagine».

P.S.

Gran parte del volumetto è costituita dalla sezione «Risposta alle domande e puntualizzazioni». Non sarebbe stato male conoscere anche le domande. D’accordo, i media danno poche risposte. Ma la religione, in fondo, è fatta di domande.

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