Diamo un taglio a certe abitudini

Mi chiamo Valentino. Così, nei quattro anni in cui ho vissuto in Giappone per lavoro, mi chiamavano Valentino san. Lo sapete, no, che san in giapponese è un titolo onorifico? Certo, san, che vuol dire più o meno «signore» (ma detto con un tono piuttosto distaccato e formale, per quanto più rispettoso del nostro «signore» che alla fin fine non dice niente di buono, anzi - «caro signore, lei non sa chi sono io!»), vale molto meno di sama, che da noi equivarrebbe a qualcosa tipo «venerabile» o «onorevole». Ma, visto che «venerabile» e «onorevole» in Italia fanno pensare al venerabile maestro della P2 e agli onorevoli che stanno a Roma o altrove a mangiare e bere alla faccia nostra, mi tengo stretto il mio san. Anche perché oggi è San Valentino.
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Non avendo moglie, né fidanzata e neppure, in questo periodo (non sto a dire né «per fortuna» né «purtroppo»), un misero flirt con qualcuna, automaticamente mi pongo fuori dal consesso dei celebranti la festa che cade il giorno del mio onomastico. Detto in altri termini, sono uno sfigato. Tuttavia la vita da sfigato presenta alcuni vantaggi, come qualcuno di voi forse saprà. Per esempio, a San Valentino non si è obbligati a fare regalini scemi e costosi, non si deve andare a cena nel ristorante scelto da lei o, peggio, al cinema a vedere il film scelto da lei. Anche questa sera, quindi, da buon sfigato, mi regolerò come al solito.
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Per sommi capi la storia è questa qua. Valentino, che era nato a Terni nel 176 o giù di lì, nel 270, quindi alla bella età di 94 anni, ma bisogna considerare che gli agiografi a volte si fanno prendere la mano, venne invitato a Roma dall’oratore Cratone per convertire i pagani. Quando l’imperatore Claudio II, leggermente irritato, gli intimò di smetterla, di non infilare strane idee nella testa dei suoi sudditi, Valentino, per tutta risposta (l’espressione «tardus umbrus» ha un senso, evidentemente...), tentò di convertire anche lui. Al che Claudio II rimase talmente colpito dalla testardaggine del futuro santo da graziarlo. Ma poi, fatto arrestare una seconda volta da Aureliano, il successore di Claudio II, Valentino fu decapitato. Fin qui, tutto normale. Le vite dei santi sono piene di vicende simili.
Nulla di sorprendente anche nelle leggende popolari su Valentino e nei miracoli attribuitigli che, guardacaso, hanno comunque tutti a che fare con ragazze piuttosto carine, pur tenendo conto che si era nel III secolo, quindi push up e mascara erano miracoli ben diversi da quelli valentiniani, e molto di là da venire.
Il punto è un altro. La festa di San Valentino, con tanto di cuoricini, ristorantini e cinemini, la dobbiamo al colpo di genio di un Papa, Gelasio I, il quale nel 496, quindi oltre due secoli dopo la morte di Valentino, fece la più grossa operazione di... come vogliamo chiamarlo? marketing spirituale? dell’Occidente. Che cosa fece quel dritto? Prese San Valentino e lo collocò, nel calendario, al posto dei Lupercalia, la festa pagana dedicata alla divinità pastorale Luperco che proteggeva le capre e le pecore dai lupi. Luperco era in sostanza un fauno e, come tutti i fauni, all’inizio dell’era cristiana fu dipinto in forma di un assatanato di sesso, diciamo pure uno stupratore di chiunque gli passasse a tiro, fanciulla o fanciullo, contadina o contadino and so on.
Insomma, grazie alla levata d’ingegno di Gelasio I, accadde che il santo dell’amore pulito, cerebrale, metafisico subentrava a un volgare erotomane. Ora, perché i Lupercalia cadevano a metà febbraio? Perché al culmine dell’inverno i lupi, spinti dalla fame, uscivano dai boschi e si avvicinavano ai villaggi in cerca di prede...
Stop. Ho detto fin troppo.
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«Senza pensare al trionfo o alla disfatta e andando semplicemente incontro alla morte come un folle, senza por tempo in mezzo; così ci si desta dal sogno». Questa frase mi è sempre piaciuta. Soprattutto perché a me capita spesso di fare brutti sogni (e la colpa non può essere soltanto delle cipolle e del cicchetto che mi concedo dopo cena). E vorrei un giorno, ma temo di non averne il coraggio, destarmi da uno di quei sogni orribili andando, proprio come un folle, incontro alla morte.
Mi piace a tal punto, questa frase, che me la sono messa sul salvaschermo, in ufficio.
«Cos’è, una formula magica, o forse roba buddhista?», mi chiese una volta un collega.
«Quasi», risposi.
«Fai il misterioso, eh? Cosa vuol dire “quasi”?», insisteva, come se la cosa lo interessasse davvero, mentre invece lo vedevo, con la coda dell’occhio, che aveva ricominciato a scartabellare, sulla scrivania a fianco.
«Vuol dire “forse”», tagliai corto.
Un’altra citazione che mi piace molto è questa: «Yasuda Ukyo ha detto che l’ultimo bicchiere di sake è determinante. Parlando di una vita, vale lo stesso principio: la fine è determinante». Non credo che San Valentino sottoscriverebbe. Lui, essendo un cristiano, probabilmente considerava la vita come un tutt’uno, un corpo unico. Gli atti d’eroismo come per esempio il suicidio dei samurai (le frasi che ho riportato sono prese dall’Hagakure di Yamamoto Tsunetomo, che è la Bibbia dei samurai), per lui non avrebbero avuto nulla di eroico. Al contrario, li avrebbe considerati peccato mortale. E dal suo punto di vista, come dargli torto? Per questo lo hanno decapitato, povero Valentino.
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Anche in Giappone, ovviamente, il giorno di San Valentino è la festa degli innamorati. L’usanza vuole che le ragazze regalino cioccolatini ai ragazzi. Lo considerano una trasgressione della madonna, peggio che andare in giro nude o robe simili. A modo loro, forse, è un atto di eroismo. È più una tradizione da teenager, ma a volte lo fanno anche le donne adulte.
Mi è capitato, quand’ero laggiù, di ricevere un cioccolatino da una donna a San Valentino. Non era buono, niente a che vedere con il nostro cioccolato ma, come si dice, quello che conta è il pensiero. Fu la mia vicina di casa, quando abitavo a Osaka, a regalarmelo. Si chiamava Miku. Vuol dire «il futuro che deve arrivare».
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Mi è venuta un’idea. Siccome questa sera per me non ci saranno regalini da consegnare, né ristorantini dove cenare, né cinemini dove andare a vedere qualche puttanata di film, appena uscito dall’ufficio farò una lunga passeggiata fino a casa. Poi mi prenderò una pizza da asporto, una quattro stagioni, ma senza i carciofini (che poi non sono carciofini, bensì mammole, e per questo non mi piacciono, non sanno di niente). Arrivato a cuccia, mi mangerò la pizza, mi berrò un paio di birre e mi guarderò Kill Bill vol. 1 e Kill Bill vol. 2 di Tarantino. Non prima di aver fatto un brindisi con il sake al mio amico San Valentino.
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Alla fine del primo volume di Kill Bill sono andato in bagno per lavarmi i denti. Ho acceso la luce sopra il lavandino e mi sono visto in faccia. Ma quella non era più la mia faccia. Avevo gli occhi iniettati di sangue, la barba mi era cresciuta in tre ore di un centimetro abbondante ed era di colore fulvo, non più sale e pepe. Ho aperto la bocca per averne la conferma, ma sapevo perfettamente che cosa stava succedendo.
Sì, i canini sporgevano. A otto anni dall’ultima volta mi stavo trasformando in un Ookami san, in un Signor Lupo.
Allora ho ripensato all’Hagakure. Ho ripensato a San Valentino e alla sua testa che rotolava per terra nella polvere dell’antica Roma. Ho ripensato a papa Gelasio I. Ho ripensato ai fauni, alle pecore e alle contadine.

Dovevo approfittare dell’occasione, forse l’ultima, che mi si presentava. Così ho aperto l’armadio, ho impugnato la spada (una bellissima katana di scuola Bizen) che mi regalò, un mese dopo quel famoso cioccolatino, la dolce Miku. E sono uscito a farmi il solito regalo di San Valentino.

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