Dietro le sbarre ma senza un reato

di Luca Fazzo

Non sono colpevoli, non sono innocenti. Sono una via di mezzo, in una categoria dai confini vaghi, aleatori, soggettivi: quella dei pericolosi. E per questo, solo per questo, stanno in carcere. A volte per un anno, a volte per più, e in alcuni casi all'infinito, vittime di quello che un avvocato ha definito efficacemente come «ergastolo bianco».

É il lato meno raccontato della realtà carceraria italiana: il mondo degli «internati», uomini e donne che la giustizia ha deciso di considerare pericolosi. Non sempre hanno subito un processo. D'altronde un processo può accertare, o tentare di accertare, se un tal reato è avvenuto, e chi lo ha commesso, e si basa per questo su elementi oggettivi: un tabulato, un video, un dna, una testimonianza. Ma quale prova o indizio potrà mai accertare se un uomo è pericoloso o innocuo? Il suo passato è sufficiente a predire il suo futuro? Eppure ci sono incensurati che compiono delitti terribili, e vecchi criminali che non farebbero più male ad una mosca. Così, inevitabilmente, le liste degli internati vengono stilate in base a impressioni del giudice di turno.

L'intero, poco noto, capitolo del codice penale che prevede queste misure stupisce, prima ancora che per le conseguenze, per il suo linguaggio. Del codice del 1930, firmato da Vittorio Emanuele III, da Mussolini e dal ministro Alfredo Rocco - tuttora in vigore - questa dedicata alle «misure di sicurezza detentiva» è la parte che racconta maggiormente il clima autoritario in cui è nato, figlio di culture giuridiche in cui si puniva non il reato ma la persona. Così gli articoli pretendono che il giudice si spinga nei meandri dell'animo umano, scrutando «una speciale inclinazione al delitto, che trovi una sua causa nell'indole particolarmente malvagia del colpevole» (articolo 108). Roba in cui si sente l'eco ottocentesco delle teorie di Cesare Lombroso, quello che misurava crani e sezionava cervelli alla ricerca delle malformazioni che rendono criminali «per inclinazione».

NULLA È CAMBIATO

Eppure è tutto ancora in vigore. Curiosamente la Corte Costituzionale, che tanti aggiustamenti ha imposto al codice Rocco, qui ha modificato solo piccoli dettagli. Di queste misure si è fatto grande uso fino al 2000, quando il numero degli internati in Italia raggiungeva i mille e cinquecento; poi è iniziata una lenta, costante discesa fino all'ultimo dato disponibile, quello del dicembre scorso: 349 persone. Tante, comunque. Un piccolo esercito di presunti pericolosi, distribuiti in sei «case di lavoro». Si chiamano così, e questo è l'altro grande equivoco della faccenda.

Dietro il nome di «casa di lavoro» è facile immaginarsi un posto dove si lavora, dove i presunti pericolosi possono svolgere una qualche attività, con l'auspicio che si redimano e si creino così le condizioni per un loro reinserimento pieno nella società. Ebbene, niente - o quasi - di tutto questo. Le sei case di lavoro attualmente in funzione in Italia sono carceri, indistinguibili dalle prigioni dove si finisce per avere commesso un delitto, e non per il timore che se ne possano compiere. Come le carceri, non sono tutte uguali. In alcuna si sta meglio, in altre si sta peggio. Ma sono posti fatti di celle, sbarre e secondini.

Nell'elenco c'è una settima struttura, perché il codice prevede che i pericolosi possano essere destinati indistintamente a case di lavoro o colonie agricole. Di colonie agricole in realtà ne esiste una sola: a Isili, nel cuore della Sardegna. Qui, almeno, gli internati lavorano davvero, fianco a fianco con i detenuti, ad allevare, macellare, coltivare: «la mattina - ha raccontato un ex ospite a Radio radicale - ci caricano su un cassone attaccato a un carro e ci portano nei campi». Chi muore qui e non ha nessuno a reclamarlo viene sepolto nel cimitero annesso, dove si dice che in una delle tante fosse senza nome ci siano anche i resti di Erich Priebke.

Poi ci sono le sei case di lavoro vere e proprie. Che non si distinguono dai carceri perché sono semplicemente sezioni di prigioni, raggi speciali per innocenti dove si fa la vita dei colpevoli del raggio accanto. É così a Biella, a Venezia, a Castelfranco Emilia (una delle sei case di lavoro, quella di Trani, è riservata alle donne: e risulta attualmente vuota, o occupata sporadicamente). Ed è così soprattutto a Vasto, in Abruzzo, dove c'è la più alta concentrazione italiana di internati: un carcere a tutti gli effetti, e talmente malandato che per una settimana è rimasto senz'acqua corrente, con le conseguenze che si possono immaginare sullo stato dei bagni, e con gli ospiti riforniti di una bottiglia al giorno per tutte le loro necessità.

L'ALTERNATIVA ALLE SBARRE

Qualcuno ci approda direttamente dal carcere, perché quando è stato condannato il giudice al periodo in carcere ha aggiunto, ad abundantiam, la casa di lavoro: e qui la pena aggiuntiva è almeno passata per un processo. Ma c'è chi ha scontato la sua pena, è tornato libero, e dopo qualche tempo si è visto per un motivo o per l'altro dichiarare pericoloso dal tribunale di sorveglianza: ed è stato portato qui, in teoria per uno o due anni. In teoria: perché l'aspetto sconcertante è la elasticità della condanna, che può allungarsi praticamente senza limite. «Al termine del periodo di internamento - racconta l'avvocato Fabiana Gubitoso, che da anni segue la situazione di Vasto - viene valutata la possibilità per il soggetto di trovare all'esterno un domicilio, un lavoro, una vita di relazione. Se, come spesso accade soprattutto per i detenuti delle fase più disagiate, questa possibilità non c'è, il giudice proroga l'internamento. La casa di lavoro non solo è una pena mascherata ma una pena a tempo indeterminato».

A rendere tutto ancora più grottesco, c'è il caso di Tolmezzo. Nel cuore della Carnia, a una ventina di chilometri dal confine, c'è uno dei carceri più sicuri d'Italia. Ci abitano oltre duecento detenuti con pedigree criminali di alto livello, come il boss dei casalesi Michele Zagaria. Sono quasi tutti al 41 bis, il regime di alta sorveglianza; alcuni sono nella cosiddetta «area riservata», la sezione dove viene applicato un 41 bis ancora più duro. Ebbene, anche a Tolmezzo c'è una sezione casa di lavoro. Dentro ci sono sette o otto internati, condannati che hanno ormai scontato la loro pena. Ma siccome quando erano in carcere erano sottoposti al 41 bis, continuano a essere al 41 bis anche adesso. Come si possa conciliare il fine di reinserimento della casa di lavoro con la asprezza del 41 bis è un mistero tutto italiano. Il risultato è che, di proroga in proroga, sia la casa di lavoro che il 41 bis possano venire prorogati all'infinito. Tutto questo in nome di un concetto, quello di «pericolosità», basato - come riconosce recentemente lo stesso ministero della Giustizia replicando ai dubbi del Garante dei detenuti, Mauro Palma - su «giudizi presuntivi». Il reato è stato punito, la condanna scontata: ma entra in ballo la «presunzione» di pericolosità.

E gli internati si trovano inghiottiti da un vortice di norme: «Gli internati - spiega l'avvocato Piera Farina - non sono in grado di dimostrare la cessata pericolosità in quanto non possono accedere alle licenze che servirebbero a valutarne l'evoluzione: ma essendo al 41 bis non possono uscire dalla cella ed avere contatti con persone diverse dal compagno di socialità. Così il giudice di sorveglianza rinnova di volta in volta. Quella degli internati al 41 bis è una situazione assurda che si trasforma in una pena detentiva senza un fine pena».

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