La difficile arrampicata sociale sulla parete inclinata del fallimento

Il film ci porta a scoprire gli abitanti di una palazzina di borgata che abiteremo per tutto il tempo

La difficile arrampicata sociale sulla parete inclinata del fallimento

È un film geometrico, Il contagio. Un teorema. Nella prima sequenza, tecnicamente semplice ma sontuosa, quasi barocca, è racchiuso tutto il film o, se volete, tutto il libro. Perché l'operazione di portare fedelmente sul grande scherzo lo spirito del romanzo di Walter Siti è dichiarata già da quel carrello in avanti che ci porta a scoprire gli abitanti di una palazzina di borgata che abiteremo per tutto il tempo. Il totale su questo edificio, di una bellezza piatta, quasi solo a due dimensioni proprio come il disegno contenuto in una delle prime pagine del libro, ci racconta dei quattro diversi piani fisici che poi diventano quelli narrativi e anche morali dei vari personaggi. Con un approccio quasi teatrale, con la palazzina che immaginiamo come se fosse una quinta con gli accessi laterali degli attori, i registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, alla loro opera seconda presentata al festival di Venezia nella sezione delle Giornate degli autori dopo un altro film di periferie romane, Et in terra pax, iniziano a muovere i fili dei personaggi della sceneggiatura che hanno scritto con Nuccio Siano.

Ecco la coppia che scoppia di Chiara (Anna Foglietta nella sua interpretazione più sentita) e Marcello (Vinicio Marchioni, attento a misurare ogni battuta) e quella monolitica per convenzione di Simona (Giulia Bevilacqua perfetta nel suo essere consapevolmente stralunata) e Mauro (Maurizio Tesei). Le incrinature nella facciata pulita delle loro esistenze non hanno l'andamento dei terremoti, quanto invece del fiume sotterraneo che scava e svuota di senso. Dietro le apparenze c'è il professor Walter (un inedito e dolente Vincenzo Salemme) che ha una relazione proprio con il palestrato Marcello, i rapporti di forza mai ben chiari anche se è la differenza d'età a svelare il lato tragico di quell'esistenza. I registi dapprima osservano con un certo distacco il dipanarsi delle vicende corali (ma sono attentissimi nella scelta e nella direzione degli attori con un cast di comprimari strepitoso) mentre poi si concentrano sul personaggio ambizioso e freddo di Mauro, tutto teso alla sua arrampicata sociale, al suo affrancarsi dalla borgata. Il film prende a girare quasi solo su di lui anche perché è proprio grazie a questo Caronte demonio (ma l'interpretazione di Tesei agisce troppo meccanicamente di conseguenza) che iniziamo a essere accompagnati nel mondo di sopra, di sotto e di mezzo della Capitale tra criminali, affaristi, palazzinari e boss del quartiere.

Ma è proprio questa la parte meno convincente del film, il racconto di questo mondo complesso non trova una corrispondenza adeguata nell'economia della scrittura, e anche lo stile ricercato di alcune sequenze, come il lunghissimo piano sequenza (con i primi piani sugli occhi di bragia di Mauro...) che accompagna la svolta del personaggio non riesce a produrre la necessaria identificazione.

Una certa distanza si viene a creare tra la messa in scena e lo spettatore, molto più profonda di quella tra la pagina scritta e il lettore. Qualcosa smette di funzionare creando un certo scollamento, un solco, che neanche alcune sorprendenti apparizioni, come quella di Carmen Giardina, riescono a colmare.

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