Difficile sostituire

Massimo Introvigne

Con la morte del presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti, l'ottantenne William H. Rehnquist, non scompare solo chi deteneva quella che può essere definita la più importante funzione giudiziaria del mondo, ma l'esponente più autorevole e rispettato del tradizionale conservatorismo americano.
Di Rehnquist si ricorderà ora soprattutto la battaglia perduta nel 1973 per impedire che con la decisione Roe vs Wade la Corte Suprema trasformasse l'aborto in un diritto costituzionale. Ma il conservatorismo di Rehnquist andava al di là dei singoli casi e si fondava su due pilastri della tradizione conservatrice americana: il federalismo e il judicial restraint, l'idea che i giudici debbano resistere alla tentazione di sostituirsi ai politici, rispettare la separazione dei poteri e limitarsi ad applicare la legge.
Rehnquist è sempre stato preoccupato del fatto che - precisamente tramite l'attivismo dei giudici - stessero lentamente scomparendo il federalismo americano e il diritto dei singoli Stati ad auto-determinarsi, voluti dai padri fondatori degli Stati Uniti. Se si leggono le motivazioni del suo voto contrario alla decisione sull'aborto Roe vs Wade ci si rende conto di come il giudice non invoca la religione ma il federalismo. Come si fa, sostiene Rehnquist, a definire il diritto all'aborto «universalmente accettato» se molti Stati non vogliono riconoscerlo? E se l'autorità federale costringe Stati contrari all'aborto ad accoglierlo nelle proprie leggi, non sarà questa la fine del federalismo? Lo strumento giuridico utilizzato nel 1973 a favore dell'aborto è il quattordicesimo emendamento della Costituzione americana, secondo il quale nessuno Stato può emanare leggi che violino i diritti fondamentali dei suoi cittadini. Ma l'emendamento è stato introdotto nel 1866, dopo la guerra civile, per impedire che gli Stati del Sud introducessero norme discriminatorie contro gli ex-schiavi liberati. Rehnquist nella sua dotta opinione dichiara il diritto all'aborto «ignoto a chi ha scritto quella norma», dal momento che 36 Stati nel 1866 avevano leggi che esplicitamente vietavano ogni tipo di aborto, che a nessuno era evidentemente venuto in mente di considerare un «diritto fondamentale» dei cittadini - o delle cittadine - americane.
Rehnquist sarà anche ricordato per la sua denuncia degli eccessi del multiculturalismo e della affirmative action in favore delle minoranze, che finiscono per violare i diritti delle maggioranze. Dopo quello sull'aborto, il suo più memorabile scontro con la maggioranza della Corte Suprema - che anche allora gli diede torto - risale al 1979 e al caso Weber, in cui Rehnquist si schierò con un lavoratore bianco che si considerava «discriminato al contrario» dal fatto che le leggi sull'affirmative action da anni gli facessero preferire colleghi afro-americani meno qualificati di lui.
Ho incontrato Rehnquist una volta sola, molti anni fa, a una cena dove si parlava di federalismo. Era anche un uomo spiritoso. Ripeteva la battuta del grande giudice Holmes secondo cui la Corte Suprema consiste di «nove scorpioni in una bottiglia» e al presidente spetta il compito di scuoterla in modo che gli scorpioni non si mordano fra loro. Ma si chiedeva, dopo che fra i giudici erano entrate le donne, se ora non si dovesse parlare anche di «scorpionesse».
Nonostante i dissensi su questioni importanti, Rehnquist è riuscito per vent'anni a tenere uniti e solidali i suoi «scorpioni».

Sostituirlo sarà tutt'altro che facile.

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