Il dilemma di Obama: ritirarsi dall’Irak. Senza uscirne

Per tagliare il ramo di un albero cresciuto in territorio israeliano con foglie sporgenti in territorio libanese, cinque militari e un giornalista sono morti e altri sono stati feriti. Il Consiglio di sicurezza si è riunito, le parti interessate hanno promesso rappresaglie, a Israele sono giunte le condoglianze del presidente americano Barack Obama e minacce apocalittiche da Teheran.
Non è successo l’irreparabile non perché non ve ne siano i mezzi e la voglia. Ma perché il tempo della vera crisi in medio oriente non è arrivato. Lo ha detto Joe Lieberman, numero due della commissioni Affari esteri del Senato americano: il problema che l’America dovrà affrontare nell’immediato nella regione non è sul confine tra Libano e Israele, ma è il ritiro delle truppe americane e la possibile spartizione dell’Irak fra Turchia e Iran. I presupposti ci sono anche se per ragioni elettorali il presidente degli Stati Uniti sbandiera come una vittoria l’annuncio che nel prossimo anno non ci saranno più truppe americane in Irak. Il che non è esatto dal momento che ne resteranno 50mila come istruttori a garanzia di non meglio precisate strutture interne. Le quali dopo sette anni di «vittorie» non riescono ancora a fornire acqua ed elettricità a uno dei Paesi più ricchi di entrambe. Sotto le spoglie di istruttori restano a puntellare un governo che da aprile non è riuscito a costituirsi nonostante il successo democratico delle elezioni.
I due uomini usciti dal voto con maggioranze relative - il premier Nuri Al Maliki è stato superato per due voti dal suo predecessore Iyad Allawi (91 seggi contro 89 su 325) - non soltanto non riescono ad accordarsi ma sanno che senza i militari americani il Paese finirebbe per implosione (nelle sue tre maggiori componenti etniche religiose curdi, sunniti e sciiti) o per smembramento dall’esterno.
Soltanto permettendo all’Iran di impadronirsi direttamente o indirettamente delle zone sciite, la Turchia può sperare di avere in cambio il controllo del Kurdistan iracheno ricco di tre cose: montagne imprendibili, petrolio e inafferrabili basi militari di curdi che da 92 anni lottano per la creazione di un Stato indipendente. Stato che fa paura ad Ankara, come a Damasco e a Teheran territorialmente, demograficamente (21 milioni), ideologicamente ( come sostenere l’indipendenza dei palestinesi e non quella curda ben più antica, etnica e linguistica?).
Il guaio per i governi passati presenti e futuri di Bagdad è che l’Irak non è mai esistito come Stato. È un agglomerato di province ottomane unite dagli inglesi per dare un trono al leader della rivolta araba contro i turchi, l’emiro Feysal, dopo la Prima guerra mondiale, quando quello di Siria gli fu sottratto a colpi di cannone dai francesi.
Lo smembramento dell’Irak potrebbe essere la vera apocalisse in medio oriente. Bush padre lo sapeva e lasciò che Saddam Hussein sconfitto rimanesse al potere.

Bush figlio, che in storia era meno ferrato che in cristianesimo, non seppe distinguere in Irak fra armi nucleari che non c’erano e uno Stato senza radici unitarie che poteva essere tenuto assieme soltanto da dittatori. Questa è la patata bollente che ha lasciato in eredità al suo successore e che Barack Obama dovrà tirare fuori dal fuoco riuscendo a ritirarsi senza uscire dall’Irak.

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