Dino, l’eroe che ha fatto votare L’Aquila

nostro inviato all’Aquila

Anche se i voti non sono molti, ogni voto è una sua vittoria personale. Sua e delle tre madri di famiglia che lavorano al di là del tavolino, dentro una fosca stanzetta del Comando vigili urbani. Dino Nardecchia, cinquant’anni, non è un candidato, quello che inseguiva non era un banale successo elettorale: il suo risultato era qualcosa che stava al di sopra della battaglia politica. L’obiettivo personale, senza gossip e senza nudità a bordo piscina, senza rancori e senza livori, era una pura e semplice battaglia di civiltà: far votare gli aquilani. Che di questi tempi e in queste condizioni era più o meno come spostare il Gran Sasso con la carriola.
Inutile raccontarsi tante favole: il 6 giugno, per questa gente, non era l’appuntamento delle Europee, ma la data che sanciva i due mesi esatti dal giudizio universale del 6 aprile, quando il mondo s’era fermato in un fragore di macerie. Tra le tante cose rimaste sotto i detriti - affetti, ricordi, futuro - certamente la passione politica era l’ultima da ricercare. Eppure Dino, dirigente dal ’96 dell'ufficio elettorale, due giorni dopo la catastrofe era già al suo posto: ovviamente in senso lato, dentro questa stanzetta quattro metri per tre recuperata accanto ai vigili, perché gli uffici, gli archivi, L’Aquila del passato non esistevano più.
Da quel giorno, formalmente, quest’uomo minuto e tenace abita in una tenda con l’anziana madre di 82 anni. Ma di fatto lì ci è tornato solo per dormire qualche ora: tutto il resto del suo tempo l’ha trascorso qui, con un paio di telefonini, un paio di computer, una fotocopiatrice e una montagna di cocciutaggine. Al suo fianco, le tre impiegate, «mamme che hanno sacrificato tutto, per dodici-tredici ore al giorno, mangiando panini, prima di tornare nelle tendopoli dalle famiglie».
Mezzi ridicoli, archivi distrutti, certificati elettorali sepolti, la gente con ben altro per la testa: il quadro era da missione impossibile. Pensare di rimettere in piedi un’elezione sembrava una scommessa patetica. Invece, Dino Nardecchia può guardare fuori dalla porta e sommessamente stupirsi: la scommessa è vinta, L’Aquila ha votato. In che modo ha votato, è l’ultimo dei suoi problemi. La cosa più importante era che i 58.611 elettori aventi diritto, 28.170 uomini, 30.441 donne, più l’esercito dei soccorritori chiamati a votare qui, più i feriti sparsi negli ospedali di mezza Italia, tutti quanti, nessuno escluso, fossero nelle condizioni di votare, qualora lo volessero. L’ha voluto il 28,8 per cento: non un dato eclatante, comunque un dato che ha del miracoloso, viste le premesse.
Certo la macchina non è andata avanti come le altre volte, come nel resto d’Italia: si chiudono le scuole, s’impiantano le urne, s’insediano le commissioni, e poi via con l’esercizio del suffragio universale. All’Aquila la democrazia popolare ha incontrato qualche ostacolo in più. Dal 6 aprile, 20mila scosse dopo, risultano 58.491 sfollati, su una popolazione cittadina di 70mila unità. Il censimento dell’emergenza parla di 32.634 persone alloggiate in alberghi e case private, soprattutto lungo la costa, mentre 25.857 sono ancora nelle tende. «Già era difficile individuarle - racconta l’eroe dell’ufficio elettorale -, oltretutto erano prive della tessera personale. A quel punto, è nata l’idea migliore, quella che davvero ha permesso il miracolo: abbiamo stampato da capo i duplicati delle 60mila tessere elettorali, avvisando la popolazione che le avrebbe trovate direttamente ai seggi, andando a votare». Dino sorride: «Ci abbiamo messo una settimana, per stamparle tutte. Alla fine, la macchina era fusa. Ma le tessere c’erano».
Il problema successivo, i seggi: «Erano 81, tutti da reinventare. Abbiamo cercato di limitare i disagi, istituendone 30 direttamente nelle tendopoli, gli altri 51 nelle scuole agibili. Attraverso la stampa, abbiamo diramato le nuove destinazioni, così che ciascuno potesse abbinare il suo vecchio seggio con quello nuovo...». A seguire, altro problema: gli scrutatori: «Ne servivano 330. Prima del terremoto i contatti erano già avviati. Alcuni però si sono defilati, persone molto scosse che non se la sono sentita di entrare in edifici di muratura. Comunque siamo riusciti a sostituirli, grazie alla generosità e al senso civico di tanti giovani». Ne ricordo in particolare due, conosciuti alla tendopoli di Collemaggio: due giovani biologi, lui 32 anni, lei qualcuno meno, sposati a dicembre, «anticipando, perché tutti ci consigliavano aprile, e meno male che non abbiamo dato retta». Lui presidente, lei segretario del seggio 2, sono saliti da Silvi Marina, dove sono sfollati, e hanno dormito in macchina. Non hanno più casa, il lavoro all’università è precario: ma hanno fatto gli scrutatori «per senso del dovere, e perché ci manca tutto, non la speranza».
Questo il quadro umano. Con un problema a sovrastare tutti i problemi: come far votare gli sfollati negli alberghi marini. «Non potendo organizzare seggi fuori Comune, abbiamo organizzato pullman speciali. Chi voleva poteva salire gratuitamente». Sono saliti in pochi, ma non c’è spazio per pentimenti: ci sono diritti che vanno garantiti anche a una testa sola.
Elezioni all’Aquila, due mesi dopo. La missione impossibile è diventata possibilissima. Grazie al tenace Dino e alle sue dame da battaglia. Da parte sua, la politica - una volta almeno - brilla per decoro, decenza, sensibilità. L’Aquila è l’unica zona franca italiana che non ha ospitato un solo comizio, una sola manifestazione, un solo manifesto murale (anche perché, dicono qui, muri ne sono rimasti pochi). I partiti possono vantare un patto non scritto di silenzioso rispetto. E non è detto che questo patto premi meno di una campagna invasiva e martellante.
Gli umori? Molti si sono rifiutati di votare per protesta. Altri per eccesso di stanchezza e di sfiducia. Altri, ci tenevano moltissimo. Il dottor Tatoni, dentista, è tornato con la famiglia da Roseto, dov’è sfollato: «Siamo venuti a votare con uno spirito di speranza. Anche questo è un segno di affetto per la nostra città ferita».
Dentro la tendopoli di Collemaggio, la signora Caterina, pensionata, ha aspettato che la lavatrice terminasse il bucato. Poi è andata a votare. «Sono importanti queste elezioni, perché portano in Europa il nostro dolore. Io ne ho un carico enorme, sa? A febbraio mio marito è morto. Un mese dopo ho perso la casa per il terremoto.

Certo non ho votato per me: alla mia età, cosa posso ancora sperare?». È sgusciata fuori dal lutto e dai disagi per andare comunque a votare. Quando si cerca una soluzione al disimpegno dei giovani, forse è da queste nonne Caterine che bisognerebbe ripartire.

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