La dittatura delle toghe contagia anche la scuola

Il Tar del Lazio vuole commissariare un ministro della Repubblica, sostenuto dai voti del Parlamento. Lo farà tra un mese se Mariastella Gelmini non piegherà la schiena, insieme con chi le ha conferito il mandato e cioè il popolo, e chi l’ha nominata su proposta del presidente del Consiglio, cioè il presidente della Repubblica. Ancora una volta, dopo la sentenza della Corte costituzionale, i magistrati trapassano con il loro spiedo il Parlamento, il governo e il capo dello Stato. Tre organi costituzionali messi in scacco da quello che la nostra Costituzione non definisce neppure potere ma semplice ordine. Ordine giudiziario. Ma più che ordine bisognerebbe chiamarlo disordine programmato, anarchia conclamata, disarticolazione per via giudiziaria della struttura democratica di questa povera Italia. Non ci si vorrebbe credere, ma va così, e la cosa desta stupore in noi solo perché siamo purtroppo ancorati ai primi tre articoli della Costituzione, dove si parla di «lavoro», «sovranità del popolo» e di «uguaglianza di tutti i cittadini». Ma no. Con quest’ultima sentenza diventa chiaro che non si premia il lavoro, ma la capacità di infilarsi nelle scartoffie burocratiche e campare di rendita; la sovranità del popolo è considerata una stupidaggine per sognatori, sequestrabile da funzionari del catasto; e l’uguaglianza vale nel senso che siamo tutti frullati come mele e pere da chi usa i propri privilegi e le proprie armi contro i comuni mortali. Ovvio: la casta giudiziaria. E chi se no?
Oggi accade che i giudici amministrativi si sono infilati nella gestione della scuola, e dei tentativi di riforma del più coraggioso ministro che abbiamo, Mariastella Gelmini, per imporre lo status quo della pigrizia, la trasformazione degli istituti scolastici in depositi di stipendi per laureati. Al diavolo efficienza della formazione ed educazione di bambini e ragazzi: prevale l’interesse di un ceto egemonizzato da Di Pietro, Franceschini, Cgil, e che sono lettori monomaniacali di Repubblica e dell’Unità, telespettatori intontiti da Santoro e Travaglio.
In realtà la colpa è nostra: non ci siamo aggiornati e attrezzati di conseguenza dinanzi alle novità della teoria e della prassi attraverso cui la sinistra e le forze finanziarie ed editoriali di essa dominatrici stanno marciando per catturare il governo del Paese.
L’ideologia del comunismo prevedeva la dittatura del proletariato. Ormai, visto che di quella categoria a sinistra si sono perse le tracce, e gli operai votano Berlusconi e Bossi, i compagni hanno ripiegato sulla dittatura del magistrato. Ecco: dalla dittatura del proletariato alla dittatura del magistrato. È più efficace, si fa meno fatica, non c’è bisogno di organizzare le masse ma di smistare le carte bollate verso mani amiche. Le quali vergano micidiali diktat, senza rispondere a nessuno, salvo a colleghi cooptati dalla medesima categoria, senza controllo di voti perché la plebe deve starsene sottomessa e silente, al massimo le è consentito manifestare a sostegno.
Fateci caso. Si sparge veleno paralizzante invece di sangue di poliziotti e di avanguardie, ma il risultato è lo stesso: la strage della legittimità democratica, il congelamento della sovranità popolare, che viene trattata come una quisquilia, conquistata attraverso l’ipnosi delle campagne elettorali ritenute ormai una mania berlusconiana. Osserviamo il ripiegamento strategico della sinistra in vista della presa del potere. Non più l’assalto al Palazzo d’Inverno con gli operai, ma le manovre dei legulei. Basta falce e martello ma toga e appello di Nobel, Oscar, editori svizzeri, sfaccendati vari.
Resta una strada. Quella di lavorare. Berlusconi lo ripete mostrando santa e democratica pazienza. Ma questa ultima sentenza dice che lavorare è praticamente impossibile. Trovano sempre un cavillo, come a Siviglia al tempo di Figaro, per rendere invalide le nozze tra libero consenso dei cittadini e la loro espressione politica di vertice, la quale piaccia o no comincia con la B di Berlusconi.
C’è bisogno di un soprassalto di dignità del Parlamento. Sarebbe opportuno soprattutto che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, garante degli equilibri istituzionali, denunciasse questo squilibrio dissennato, e lo facesse senza remore. Ha mostrato in varie occasioni di saper vedere oltre la parrocchia di provenienza. Confidiamo vivamente che il Quirinale non sia stata anch’esso commissariato con un provvedimento silenzioso dai medesimi soggetti che comandano le danze. Alludo a questa triplice alleanza pseudo italica tra l’avanguardia rossa della magistratura, il potere editoriale e finanziario a cui sta appeso un Partito democratico gregario e strizzato dai dipietristi.
Intanto un sindacalista, tale Marcello Pacifico, comunica trionfante, e il suo messaggio figura su «Repubblica.it» come una parola d’ordine: «La giustizia ancora vige nei tribunali: speriamo che il Parlamento non intervenga perché, altrimenti, dovrà intervenire il giudice delle leggi, la Corte costituzionale per mettere la parola fine alla vicenda».

Come, come? Un ukase al Parlamento perché non faccia leggi? Altrimenti chiamano la Consulta a bloccarlo? Presidente Napolitano, sta leggendo oppure no? Questo che cos’è se non la chiamata a un golpe? Non staremo lì a guardare.

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