Pietrangelo Buttafuoco è un giornalista ribelle ma anche un pozzo di cultura e, se ci passate l’espressione bizzarra, un pozzo di scrittura, per quella sua capacità di gestire una prosa dotata di enorme profondità. Quindi non è solo per Le uova del drago o L’ultima del diavolo che è considerabile un giornalista-scrittore. Quella «sottospecie» che Cancogni considera in via di estinzione.
Secondo Manlio Cancogni oggi c’è un’insofferenza verso il giornalismo colto, quello che potremmo definire da terza pagina...
«C’è una forma di schizofrenia. Da sempre tutto ciò che resta, che è destinato a durare nella memoria, è giornalismo alto. Oggi, nell’epoca dell’informazione totale questo è ancora più vero. La notizia è dappertutto, ma resiste solo il giornalismo alto, quello che approfondisce. Restano giornali come il New Yorker che dettano legge... Il resto è giornalismo fast food».
Quindi la bulimia da notizie potrebbe anche favorire il giornalismo con una forte vena narrativa?
«Oggi il giornalismo è spesso costretto nell’ambito della propaganda... Un tempo c’era spazio per la mistificazione letteraria. Hemingway o Montanelli, per fare un esempio italiano, non descrivevano esattamente la realtà. Nel raccontarla la cambiavano. Eppure i loro pezzi davano molto più l’idea delle cose che le immagini di una telecamera. E secondo me è inevitabile un ritorno in quella direzione. Anche perché siamo sempre più coinvolti in temi di ampio respiro. L’informazione ha bisogno di una dimensione ampia».
Però i giornali non sembrano ancora muoversi in questa direzione. Hanno altri schemi, privilegiano altre cose...
«I giornali sono rimasti legati allo schema dell’inchiesta che è un cattivo retaggio degli anni Settanta. Non dimentichiamoci che la morte del commissario Calabresi è nata da un’inchiesta giornalistica, da un certo modo di fare le inchieste giornalistiche. Non è un caso quindi che i periodici soffrano mentre i libri e il teatro vanno bene. È un’offerta più seria».
E gli scrittori puri come vedono un giornalista-scrittore come lei?
«Gli scrittori italiani sono un gruppo chiuso e preda di vecchi riflessi condizionati. Per quanto riguarda la mia esperienza personale non mi hanno mai considerato, per loro non sono un “collega”. E questo è un atteggiamento che, secondo me, viene esteso a chiunque non appartenga a un certo entourage. Onestamente poi, a parte alcune meravigliose eccezioni commerciali, gli scrittori italiani fanno ridere... C’è ancora chi si fa un punto d’onore del fatto di non guardare la televisione o di non leggere i giornali...».
Come è nata questa frattura tra il mondo dell’informazione e gli scrittori puri?
«È il risultato delle strategie messe in atto dalla sinistra per ottenere l’egemonia culturale. Ha creato un sistema di comparaggio. Anzi il termine più corretto, più che comparaggio o casta, è “cumacca”, un termine del linguaggio malavitoso meridionale.
Ma i giornalisti scrivono bene?
«Il giornalista italiano spesso scrive meglio dello scrittore. Francesco Merlo scrive benissimo ad esempio... Un reportage sulla mafia di Peppino Sottile vale molto di più di certi romanzi...».
Insomma c’è un corto circuito politico che diventa un cortocircuito culturale...
«Le faccio l’esempio degli esempi: Saviano è bravo e non è un gruppettaro di sinistra. Ma viene percepito così... Se non fosse percepito così avrebbe molti più problemi ad avere visibilità. E molti suoi fan non glielo perdonerebbero mai».
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