Cultura e Spettacoli

"Il Divin Codino" incassa un autogol

"Il Divin Codino" incassa un autogol

La chiave di lettura del Divin Codino la offre una frase attribuita ad Andreina. All'ennesima notte insonne, inseguito dagli incubi per il rigore sbagliato a Pasadena nel 1994, la saggia moglie centra il problema che lo affligge: «Vedi Roberto, la gente ti ama ancora di più proprio perché quella finale l'hai persa». In effetti l'epopea di Roberto Baggio è quella di un magnifico perdente, o quantomeno di un incompiuto, nonostante il suo assoluto e cristallino talento.

Dopo l'agiografia di Francesco Totti, arriva sul piccolo schermo per Netflix la particolare biografia di un altro numero 10, non una miniserie ma un film diretto da Letizia Lamartire e interpretato da Andrea Arcangeli. Più che il ritratto di un campione, Divin Codino sembra la seduta psicanalitica di un ragazzo chiuso, cupo e depresso, tormentato dal rapporto con un padre grezzo e ignorante, il signor Florindo, incapace di incoraggiare questo figlio così musone e geniale. Meno male che almeno le donne della famiglia, la mamma e la moglie, gli sono sempre vicine con amore.

Altro tema centrale, la conversione al buddismo. E non è un mistero che l'approccio alla spiritualità abbia aiutato il calciatore nei momenti più difficili seguiti agli infortuni. Il film insomma non aggiunge niente a ciò che si conosce, anzi sottrae molto con scelte francamente incomprensibili. Mai citata la Juventus, squadra in cui Baggio vinse gli unici titoli di squadra e personali (il Pallone d'oro), completamente ignorate Milan, Inter e Bologna, tanta Nazionale (unica maglia con la quale si è davvero identificato), abbastanza Fiorentina e Brescia, primo amore e ultimo approdo. Ci sono i rapporti difficili con gli allenatori - Baggio era considerato un lusso nel concetto di gioco di squadra da Sacchi, Lippi e Capello, nonché un vanesio pericoloso che attraeva su di sé tutta l'attenzione mediatica - gli enigmatici silenzi e le numerose contraddizioni.

Non so quanto il vero Baggio si sia ritrovato nell'interpretazione pur buona del giovane Arcangeli, mai sorridente, occhi bassi, egocentrico e vittimista. Un taglio criticabile ma comunque accettabile. Invece risultano intollerabili le numerose sviste della regia, vere e proprie perle di sciatteria: si vedono i mondiali del '94 in tinelli e bar che sembrano quelli degli anni '70; Baggio risponde alla telefonata del Trap su un vecchio Nokia in cui non comparivano ancora i nomi; l'auto che guida nel 2003 porta la targa Vicenza quando già dal 1994 erano state eliminate le province. Sembrano dettagli irrilevanti, eppure fanno la differenza tra un lavoro buono e uno modesto, e Divin Codino appartiene a questo secondo nutrito gruppo. La scelta di umanizzare il calciatore, invece di farcene ammirare ancora una volta i dribbling e i fantastici gol, rischia di renderlo ancor più antipatico di quanto fosse. Dicono che i timidi si nascondano dietro ritrosia e distanza, ma io non ci ho mai creduto.

Baggio è stato forse il giocatore di maggior classe degli anni '90, ma la storia del calcio non l'ha scritta lui.

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