Il dna è bugiardo e le inchieste vengono chiuse a «Testa o croce»

Un commissario di polizia ambizioso. Un procuratore che non vuole pensieri ma risultati. E la vita sonnacchiosa di una città di provincia affacciata sull’Adriatico sconvolta dalla morte dell’avvenente direttrice del museo. Chi l’ha uccisa? Si intitola Testa o croce (Società editrice fiorentina, euro 10) l’ultimo sorprendente romanzo di Massimo Mannucci, pubblico ministero a Livorno e scrittore appartato. Testa o croce coglie perfettamente, quasi dall’interno dell’apparato investigativo, i limiti, le aspettative, i problemi di molte indagini italiane. Lo sappiamo, i casi di cronaca nera che riempiono i giornali e i palinsesti delle tv, aspettano quasi sempre soluzioni taumaturgiche offerte dai camici bianchi con le stellette. La genetica, il Dna, i telefonini con relativi tabulati. La prova scientifica è quasi sempre la base di ogni indagine contemporanea che si rispetti ed è ovvio che sia così. Il punto è che troppo spesso l’inchiesta resta prigioniera dei dati tecnici che, via via, emergono. E qualche volta gli investigatori si perdono in un labirinto di elementi. È strano e paradossale, ma qualche volta è proprio così: ecco tante certezze che messe in fila sviano. Allontanano dai fatti. O meglio offrono una soluzione di comodo. Tranquillizzante. Che può andare bene ma che è sicuramente falsa. Oppure peggio, come è accaduto per alcuni delitti che hanno appassionato l’opinione pubblica, le tante singole evidenze formano una nebulosa. Restano mattoni disordinati, accatastati l’uno vicino all’altro, come capita di vedere nei cantieri.
Nel libro di Mannucci, abbastanza scafato per averne viste tante negli uffici delle procure, vince la prima interpretazione. L’indagine per l’omicidio della dottoressa Matilde Solopaca, condotta con una buona dose di pigrizia e altrettanta ansia per i risultati che l’opinione pubblica pretende, si attacca alla scienza. Ma il test del Dna, che potrebbe essere un ottimo punto di partenza per svolgere ulteriori analisi e per porre domande curiose e irriverenti, finisce con l’essere la tomba di ogni ulteriore sforzo. E così il protagonista, il commissario Giorgio Amabile, raccontato con tratti misurati ed efficaci, deve fare i conti con una chiusura dell’indagine che lascia l’amaro in bocca. Perché il presunto colpevole è stato inchiodato con catene apparentemente solidissime: il margine di errore è pari a uno su cento milioni di miliardi, ma la realtà è ballerina. Anzi, l’investigazione poggia sulle sabbie mobili della propria frettolosità e superficialità. La prova regina è stata raccolta nel modo sbagliato, o meglio non correttamente. E il fascicolo processuale è scarno, anzi povero: si basa su quell’elemento double face e poco altro. Non importa: il procuratore ha deciso che il carniere è pieno. Quel che c’è dentro può e deve bastare. Il buonsenso, la curiosità, la pazienza sono virtù sotto naftalina nell’armadio dei buoni propositi.
Testa o croce ci porta dunque sul set immaginario di uno dei grandi casi di nera che entrano quotidianamente nei nostri salotti. Ed è il racconto di quel che accade dove le telecamere non entrano.

Negli uffici dei Pm, nelle stanze dei carabinieri e della polizia, nei laboratori della scientifica. Un dietro le quinte illuminante, in bilico fra le ragioni dell’alambicco e quelle dell’intuito. Quasi un breviario da tenere presente mentre titoli e immagini ci portano ad Avetrana o a Brembate.

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