Guida un'istituzione unica nel suo genere, pensata per promuovere l'arte contemporanea, non tra quattro mura ma in giro per la città. Stiamo parlando di Beatrice Trussardi, dal 1999 alla testa dell'omonima fondazione. A lei si deve il progetto, da tempo realtà, di un museo nomade, fuori dagli spazi espositivi di Palazzo Trussardi: le mostre viaggiano per Milano, immerse nella quotidianità, per la gioia e il consumo dei cittadini. Per 15 anni, fino al 2014, Beatrice Trussardi ha avuto ruoli chiave nel gruppo di famiglia (è stata presidente e ad), ora si dedica anima e corpo alla Fondazione. Del resto, si è formata per questo, lo ricordano gli studi in Contemporary Art Business alla New York University, gli stage al Guggenheim, al Metropolitan Museum, al Moma. Il suo percorso, le esperienze nel mondo imprenditoriale e culturale ne fanno una figura di spicco, chiamata a sedere in vari board: da quello del Maxxi, agli Amici di Aspen e, fino al Comitato Women in Diplomacy.
In queste settimane, Fondazione Trussardi è sotto i riflettori per il successo de La Grande Madre , in mostra (fino al 15 novembre), a Palazzo Reale di Milano. Si espongono 127 artisti del Novecento che si sono espressi sul tema della maternità.
Una mostra sulla donna: da intendersi solo ed esclusivamente come madre?
«È sulla sua individualità e sul ruolo assunto nella storia, su quello che ha ottenuto: nel mondo occidentale perlomeno. È una mostra dedicata alla condizione femminile e al potere della donna, anzitutto quello di generare in qualità di madre. Si riflette poi sul potere inespresso o addirittura negato».
E l'uomo che fine fa?
«Se intendiamo la mostra sotto l'ottica del potere generativo, allora l'uomo potrebbe risultare un po' spiazzato. Però gli uomini possono trarre ispirazione per guardare al proprio potere generativo: ogni individuo ha una parte creativa, quella femminile appunto. Credo che proprio per questo la mostra possa offrire stimoli anche gli uomini».
Che messaggi lancia «La Grande Madre»? Che riflessioni vorrebbe potesse stimolare?
«I messaggi sono molteplici. Si esplorano diversi modi di convivenza. Non si punta solo sul rapporto madre e figlio o su quello coniugale. C'è un'opera di Nicholas Nixon, per esempio, che racconta le relazioni fra le quattro sorelle Brown. Le ha fotografate per 40 anni, e sempre nella stessa posizione. Si percepisce il fluire del tempo di anno in anno, l'evolversi del rapporto, cambiano gli sguardi, le posture... È una narrazione avvincente».
Torniamo al potere negato, quello che ancora oggi è negato.
«Oppure, aggiungo, frenato. Resistono cliché e modi di pensare che influenzano la percezione e quindi la libertà data alla donna. Magari non sono negazioni esplicite, sono culturali, intellettuali».
Ma la maternità cosa aggiunge e cosa toglie a una donna? E a Beatrice Trussardi, mamma di Tancredi e Ruggero?
«È un'incredibile espressione del proprio potere generativo. Certo, toglie la libertà individuale. È istintivo pensare prima al figlio e solo dopo a noi stesse. Però via via si trova un equilibrio, le cose cambiano a seconda delle fasi della vita».
La mamma italiana è una figura a se stante, forse non fa granché testo nel panorama internazionale. Non trova?
«La mamma italiana è speciale, includente, iperprotettiva, soprattutto se la si paragona a una mamma nordica. Se un bimbo cade a terra la mamma italiana si precipita a soccorrerlo, quella scandinava gli getterà giusto uno sguardo».
Un bene o un male?
«Come sempre vince l'equilibrio. Ma è anche questione di Dna... comunque la mamma non deve essere troppo ingombrante».
E lei che mamma è? O almeno: lei come si vede?
«Lo diranno i miei figli. La vita comunque insegna che quando il figlio raggiunge una certa età vive il classico momento di ribellione, una fase in cui accusa il genitore di aver sbagliato. L'ho già messo in conto».
Dopo «La Grande Madre» ci sarà «Il Grande Padre»?
«In parte c'è già. Impera infatti una scultura che rappresenta il Padre Patria, il Vater Staat . È un gigante di ferro dello scultore Thomas Schütte. Una figura imponente, autoritaria, severa, contrapposta alla madre patria, più avvolgente».
Lei cosa deve a sua mamma e cosa a suo padre?
«La mamma ha offerto un modello di rettitudine, era lei il genitore che poneva le regole, quindi la più severa fra i due, quella che insisteva sulle forme. Papà ci lasciava più liberi, voleva insegnare attraverso l'esempio. Mamma cercava di compensare».
Come la mettiamo con le origini bergamasche dei Trussardi?
«Sono molto vive. Credo che il mio senso del dovere e la determinazione vengano proprio da lì. E comunque vorrei sottolineare che papà era creativo e poliedrico, curioso, interessato a mille cose, forse il bergamasco tipico è più lineare...».
Che tracce rimangono dei lutti famigliari?
«La morte è l'unica certezza che abbiamo. Il nostro cammino è accompagnato da persone che prima o poi se ne andranno. È un qualcosa con cui tutti facciamo i conti. Per la nostra società la morte è un tabù, si enfatizza l'idea di vivere il più a lungo possibile, e la scienza aiuta in questo senso. In altre culture la morte è vissuta come un passaggio naturale».
È cresciuta in una casa frequentata da artisti. Cosa ricorda di quegli incontri?
«Visti i molteplici interessi di papà, a frequentare la nostra casa non erano solo artisti, ma anche personaggi del mondo degli affari, della moda... Ero così giovane che non coglievo le differenze. In questo senso le più grandi sollecitazioni le ho avute durante gli anni di New York, lì sono entrata a stretto contatto con il pensiero creativo di tanti artisti, ed è accaduto in una fase anagrafica in cui questo poteva essere percepito. Trascorrevo ore e ore nei loro studi».
Lei sembra attratta soprattutto dalle arti visive. Dipinge?
«Ho fatto corsi di disegno, ma non dipingo. A proposito. La scuola dovrebbe assecondare l'attitudine all'arte così tipica dell'italiano, invece non si dà modo di praticare».
Lo dice anche forte delle sue esperienze di studi in America?
«Lì, per esempio, l'approfondimento teorico sui testi viene accompagnato dall'esperienza pratica. Da noi c'è troppa teoria. E poi: è possibile che i nostri ragazzi stentino ancora a parlare inglese? Dovrebbero essere bilingui».
Scuole internazionali per i figli, dunque?
«Sono piccoli, al momento. Però già stanno imparando l'inglese».
Ha collaborato con il Guggenheim, il Metropolitan, il Moma. Cosa le è stato più utile di queste esperienze?
«Sono franca: ho imparato di più in questi 14 anni di gestione della Fondazione che nel corso dei passati stage pur in istituzioni di questo livello. È stato importante vedere come funziona un grande museo. Ma quello che più conta è aver creato una struttura unica, apprezzata all'estero e vista come modello. Noi italiani dobbiamo smetterla di guardare fuori e pensare di non essere all'altezza. Anzi, se un progetto è particolarmente riuscito, perché non ammettere che siamo stati bravi?».
E quanto alla polemica sugli stranieri alla guida dei musei italiani?
«Basta con queste discussioni. All'estero nessuno si sogna di criticare se un italiano dirige un museo o un ente, e di italiani alla testa di istituzioni straniere importanti ce ne sono parecchi. Semmai, quello che si può migliorare, è la valutazione dei curricula. Non necessariamente bisogna rivolgersi sempre al grande nome, ci sono tante risorse in erba che vanno capite, valorizzate e fatte crescere. Noi in Fondazione abbiamo fatto così».
Dopo «La Grande Madre»?
«Non stiamo lavorando a nessun altro progetto specifico. Anche perché questo va accompagnato. È un progetto incredibile, oltre al lancio bisogna preoccuparsi di nutrirlo con regolarità. E comunque fa parte del nostro modus operandi quello di rimanere flessibili e di non programmare con troppo anticipo. Wheatfield, per dire, l'abbiamo pensato e promosso in due mesi».
Trussardi è un marchio della nostra moda ancora con radici ben salde in Italia. Che opinione s'è fatta della vendita all'estero di molti brand?
«È un fenomeno che si registra i tanti
settori. Pensiamo a Pirelli, Italcementi... Ora, il mercato si è allargato, è mondiale, bisogna strutturarsi per poterlo affrontare altrimenti non si va da nessuna parte, e questo accade nella moda, nel food, nell'arte».
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