nostro inviato a Torino
Dopo una settimana di polemiche sui fascisti al Salone del libro di Torino, dopo l'esclusione dell'editore Altaforte, dopo le inquietanti proposte di ammettere solo chi è conforme a «un codice etico», arriva la incredibile scoperta. Qual è lo scrittore al quale sono stati dedicati più incontri, tre nei tre giorni centrali? Emil Cioran, ammiratore della Guardia di ferro ed entusiasta cittadino della Berlino nazista. Uno che in seguito ha scritto di considerare Adolf Hitler una sciagura ma anche l'ultimo tentativo di risvegliare un'Europa già pronta alla dissoluzione. Tu guarda lo scherzo del destino. Proprio Cioran, nato a Rasinari, in Romania, nel 1911 e morto a Parigi nel 1995. Uno che ha sparato ad alzo zero sulla sterilità delle opinioni in un'epoca di chiacchiere stomachevoli, quelle opinioni di cui trabocca proprio il Lingotto, sala blu, sala rossa, sala verde: opinioni impacchettate per riuscire gradite al mercato anche e soprattutto quando si spacciano per trasgressive. «Scrittori umani» era la definizione (colma di disprezzo) di Cioran per i forzati dell'impegno civile, del perbenismo intellettuale, del conformismo politico e non solo. Dagli «scrittori umani» il lettore non ha nulla da temere: lanciano innocue provocazioni, sfondano porte aperte mettendosi in posa da eroi. Cioran appartiene alla razza dei Baudelaire, Rimbaud, Proust, Céline. Scrittori che restano per la ferocia gratuita con la quale aggrediscono il lettore soprattutto quando toccano l'apice dell'ispirazione e dello stile. Lo sa bene chi ha letto o vorrà leggere i due titoli, entrambi splendidi, di Cioran presentati al Salone: Breviario dei vinti (Voland) e L'insonnia dello spirito. Lettere a Petre Tutea 1936-1941 (Mimesis). Interessante anche il saggio di Vincenzo Fiore Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia (Nulla Die Editore) al centro del terzo incontro.
No, davvero? Proprio Cioran? Uno che se per caso fosse passato dagli stand torinesi avrebbe subito messo alla berlina tutti i libri esposti, sottolineandone la pletora dei vocaboli, il cancro della parola e l'inutile prolissità. Anche dei pamphlet di cinquanta pagine, comunque troppe, vista la generale carenza di pensiero forte. Vi immaginate Cioran al Salone del libro? No. Infatti non ci sarebbe mai andato. Accettò un premio, il Rivarol nel 1950, perché non riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena. Poi stop. Rifiutò tutto. Invece al Salone c'è pieno di fascette che gridano: «Candidato al premio Strega». In effetti utili per un solo motivo: con qualche eccezione, segnalano i romanzi da evitare come la peste. Qui a Torino c'è chi scannerebbe la madre per portarsi a casa un premio, uno qualsiasi, va bene anche quello alla memoria. Cioran agli onori preferiva le mansarde da quattro soldi in cui sopravviveva grazie alla generosità degli amici e delle amiche.
Però, non sarebbe stato fantastico Cioran al Salone? Probabilmente sarebbe arrivato in bicicletta: negli anni d'oro girò mezza Francia sui pedali. Quasi certamente si sarebbe vestito come un barbone (gli abiti buoni glieli regalavano gli amici di cui sopra). Infine la conferenza. Pare di sentirlo. Avrebbe potuto dire una cosa come: «Una nazione conosce la gloria in epoche di avventurieri, di vagabondi, di sradicati nostalgici, quelle in cui l'odio, la vendetta e l'onore aprono i cuori ad altri orizzonti e fanno delle conquiste la spinta preminente dell'esistenza. Da quando gli inglesi smisero di essere crudeli e preferirono la serenità alla temerarietà, la ricchezza all'entusiasmo, il danaro all'insensatezza, finirono senza rimedio nella vergogna del declino, nel calcolo, nei piccoli traffici di borsa, nella democrazia e nell'agonia» (Breviario dei vinti, Voland). Chissà quanti maestrini democratici gli avrebbero chiesto di rendere conto della sua opinione sconveniente per un luogo, il Salone, che ha scoperto da ben sette giorni di essere l'inviolabile tempio della democrazia.
Pensa che facce se fosse arrivato sul serio Cioran e avesse detto: «Per il senato romano, Roma era più che il mondo. Ecco perché lo dominò, lo umiliò e lo vinse. Un popolo - e a maggior ragione un individuo - non crea che rifiutando ciò che non è lui, non comprendendo che sé. A comprendere gli altri, ci si trasforma in una sorta di gelatina, prudente e assennata. Ma non si genera più niente». Secondo Cioran, chi smette di invadere, presto o tardi viene invaso. È successo all'impero romano. Succederà anche all'Europa. Roba da far tremolare le povere gelatine assennate. E la tolleranza? E il diverso? E l'accoglienza? Questo Cioran qui non starà mica parlando di immigrazione, non sarà un pericoloso sovranista? Figuriamoci. Proprio Cioran, tanto apolide da rinunciare (con dolore) alla lingua madre perché si era reso conto di quanto fosse inutile scrivere in romeno. Le gelatine non saprebbero che pesci pigliare, d'altronde ragionano per frasi fatte e luoghi comuni nonostante si riempiano la bocca di complessità illudendosi di essere intelligenti.
Come tutti i grandi, Cioran avrebbe guardato dall'alto le polemiche da salotto del Salone. Derideva le etichette. Se proprio doveva polemizzare, polemizzava direttamente con il padreterno. Sprofondiamo assieme a Cioran in questo abisso di disperazione: «Entrambi siamo destinati a protestare in quest'anfratto sperduto del mondo e a conservare, attraverso la sofferenza, l'insonnia dello spirito. Non perché in un altro angolo dell'Universo potremmo essere felici (dato che non troveremmo Dio da nessuna parte, tuttavia ovunque sapremmo cos'è la morte)...
Siamo così soli che possiamo confrontarci soltanto con Dio. È il mio unico pensiero e la mia unica via di fuga. Credo tu lo abbia capito da molto: non c'è nessuno» (L'insonnia dello spirito, Mimesis). Allegria di naufragi.
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