E a Milano ritorna il clima degli anni ’70 contro Montanelli

La cacciata del grande giornalista dal Corsera su pressioni degli ambienti di sinistra

E a Milano ritorna  
il clima degli anni ’70  
contro Montanelli

Milano cambia, spiega dai manifesti Giuliano Pisapia. Ma in che senso? Personalmente non ho dubbi: è una svolta verso un passato lontano ma ancora ben radicato. La guida dello schieramento della sinistra in campo, il mix di borghesia arrogante e piena di livore per i cafoni berlusconiani e ciellini, e di ribellismo non più vitale ma ancor più nichilistico, non può non ricordare a chi ha memoria la Milano degli inizi anni Settanta quando vengono cacciati dal Corriere della Sera prima Giovanni Spadolini e poi Indro Montanelli, chiusa la Triennale, messi sotto processo per elitismo culturale da professori e artisti di sinistra.

Il popolo della sinistra ambrosiana che ha votato per lo sfidante di Letizia Moratti è ben più ampio della sua guida ma i due leader, Pisapia e Stefano Boeri, rappresentano lo spirito di quegli anni che di fronte a movimenti sociali impetuosi vide lo sbandamento di parte notevole della sua classe dirigente, incapace (come non successe in Francia o in Germania per esempio) di assumersi vere responsabilità.
Non si tratta qui di evocare «precedenti penali» (segno di brutti tempi in cui anche un coraggioso riformista come Umberto Ranieri si ricovera sotto la «forca» di Luigi De Magistris) ma di cogliere la continuità ideologica, politica e culturale di un estremista che sarà mite come Pisapia ma resta estremista e del suo intrecciarsi con la «borghesia del disprezzo».

Agli inizi degli anni Settanta al governo della città c’erano giunte di centrosinistra ma intimidite dalla protesta, inette nell’esercitare un contrasto. Non per nulla alcuni protagonisti di allora, non privi di qualità di governo ma sbandati culturalmente come Piero Bassetti a quaranta anni di distanza si ripropongono nello stesso ruolo: favorire posizioni distruttive però «innovative».
C’è persino un elemento di peggioramento rispetto a quegli anni: allora c’era un settore riformista del Partito socialista che prese rapidamente la guida della città, c’era un Partito comunista in cui albergava una solida anima pragmatica che aiutò i socialisti ad amministrare Milano, c’era un forte, talvolta rude ma assai concreto movimento dei lavoratori guidato da una Cgil con la testa sulle spalle che aiutò a raddrizzare i guasti delle sbandate estremistiche.
Oggi riformisti, pragmatici e concreti della sinistra sono «ospiti» mal digeriti che devono camminare in punta di piedi. Piuttosto, quanto alla concretezza, peseranno uomini dai mille affari come Guido Rossi o Marco Vitale che sotto la copertura dell’estremismo consolideranno certi poteri finanziari tradizionalmente oligarchici.

È evidente come il voto del 15 maggio segnali uno scontento di elettori che negli ultimi decenni hanno votato per il centrodestra, come sia una risposta a scelte locali e anche nazionali. A questi «settori» va però spiegato il senso del cambiamento intrinseco alle scelte pisapiane e come sia distante dalla proposta di governo cittadino di un Piero Fassino: una cosa è appoggiare la svolta di Sergio Marchionne e l’Alta velocità, un’altra stare con l’alleanza Fiom-centri sociali e ospitare la lista No Expo nella propria coalizione.

Può darsi che nel prossimo futuro sia utile anche per Milano «cambiare» con un’amministrazione di sinistra ma il minimo necessario è che questa sia «riformista» non snobistico-estremistica come quella che si delinea.
Oggi piuttosto che cambiare tornando a un fosco passato, è indispensabile andare avanti con una Letizia Moratti che «avvisata» dal suo elettorato non potrà che migliorare.

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