E il Prof avverte l’Unione «Se cado, cadiamo tutti»

Ora i Pm attendono gli atti depositati alla Commissione di Borsa guidata da Cardia

Fabrizio de Feo

da Roma

C’è chi tira in ballo il proverbiale «fattore C» del presidente del Consiglio. Chi sussurra che le indagini sulle intercettazioni fossero a conoscenza di qualche esponente dell’Unione che avrebbe consigliato all’inquilino di Palazzo Chigi di tirarla il più possibile per le lunghe prima di sottoporsi alla graticola parlamentare sull’ «affaire Rovati». Fatto sta che Romano Prodi accoglie come una benedizione la bufera mediatica sulla grande centrale di spionaggio gestita da un’organizzazione parallela a Telecom. E tenta di spostare il mirino dell’attenzione pubblica lontano dalle polemiche accese dalla pubblicazione del piano industriale preparato dal suo ormai ex consigliere economico.
Il timore, diffuso nel centrodestra, è che Prodi, possa venire in Parlamento «a fare accademia sul capitalismo malato». E il Professore, parlando alla festa nazionale dell’Italia dei Valori, sembra accreditare questo scenario fornendo un antipasto di quella che sarà la sua autodifesa. «Non conosco il rapporto Rovati e non l’ho letto nemmeno in Cina, anche perchè avevo altro da fare» dichiara. «In Parlamento, comunque, si va a discutere delle questioni di fondo che riguardano il Paese». Poi, con toni decisi, aggressivi e perentori, rivendica la correttezza del suo comportamento e insiste nel suo «j’accuse» contro Marco Tronchetti Provera. «Avevo diritto ad essere informato sui piani della Telecom in nome del popolo italiano. Un governo non può del tutto ignorare cosa accade su imprese vitali per il futuro del paese. Tronchetti Provera ha chiesto un colloquio con me e lo ha fatto anche sapere a tutti i giornalisti. Quando si chiede di parlare con il presidente del Consiglio si deve informarlo dei programmi in corso. Ma questo non è avvenuto».
Il premier esclude che il governo di centrosinistra voglia «un ritorno al centralismo dell’economia». Una convinzione che sarebbe confermata dalla sua storia. «Sono stato l’uomo delle privatizzazioni dieci anni fa, anche se queste non sono sempre avvenute secondo le regole». Il presidente del Consiglio, ovviamente, dribbla i rilievi di chi gli fa notare come negli ultimi giorni si sia più volte «autosmentito» prima liquidando come «folle» l’ipotesi di venire in Parlamento, poi asserendo che non avrebbe mai riferito sulla vicenda Telecom nei due rami del Parlamento. «Non c’è stata nessuna retromarcia. No, no, no. E non c’è stata neppure alcuna pressione da parte dei presidenti delle Camere e del Quirinale. Non mi tiro mai indietro sulla sacralità del Parlamento» continua, precisando che la sua risposta «ma siamo matti» era riferita «a una richiesta dei giornalisti per spiegare il piano Rovati», una «faccenda che è al di fuori del governo».
A Prodi viene chiesto se Tim possa finire nelle mani di Silvio Berlusconi: «Certamente. Ma non c’è il problema Berlusconi o Bianchi o Rossi. È un problema di conflitto d’interessi, se non c’è il conflitto d’interessi...». Il premier detta un chiaro «no» all’ipotesi di separare le reti dall’azienda principe di telecomunicazioni, liquidando l’ipotesi come «complessa e complicata». Prodi, poi, si sofferma sulle possibili obiezioni che potrebbero arrivare da Bruxelles in merito a un eventuale uso della golden share, ovvero del pacchetto azionario strategico che permette allo Stato di intervenire nelle decisioni più importanti di alcune aziende privatizzate. «Se l’Ue lo chiede in modo esplicito si lascerà cadere la golden share, ma l’argomento è in discussione e credo che il Parlamento dovrà dibatterne. Certamente non aspetteremo solo il diktat dell’Ue ma proveremo noi in Parlamento a elaborare una dottrina. Il bene pubblico va custodito, il contratto delle concessioni va rispettato». Il tutto accompagnato da un auspicio: «È compito del governo aiutare e rafforzare l’industria perchè il nostro Paese non sia solo preda ma anche cacciatore». Ma quanto all’italianità «abbiamo delle regole internazionali a cui dobbiamo obbedire, e quindi non possiamo dire questa società deve rimanere italiana».
L’ultimo passaggio è dedicato alla navigazione governativa, mai così stentata, difficoltosa e criticata a cielo aperto dagli stessi alleati dell’Unione come negli ultimi giorni.

«Se il governo non ce la fa, io vado a casa. Ma sono convinto che non ci vado da solo» risponde Prodi tagliente quando gli viene chiesto cosa accadrebbe in caso di crisi di governo. Il tutto corredato da un auspicio finale. «Il mio governo governerà. Punto».

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