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E Schröder, ormai senza freni diventa un problema per i suoi

Marcello Foa

nostro inviato a Berlino

Euforico, infantile, offensivo. E, senza dubbio, inopportuno. La Germania ha un problema, si chiama Gerhard Schröder, proprio colui che è stato per molti anni il beniamino dei media tedeschi. Il «Cancelliere divertente», lo avevano soprannominato. Convincente in tv, accattivante con le grandi firme della stampa tedesca: sì, ci sapeva fare. Ma nella notte elettorale si è trasformato. Improvvisamente sanguigno, supponente, sprezzante. «Un nuovo Cesare», ha ironizzato il giorno dopo il quotidiano Frankfurter Rundschau, commentando la sua sconcertante esibizione al tradizionale dibattito del dopo voto. Quando il direttore della Zdf gli ha rivolto la parola chiamandolo «signor cancelliere», lui lo ha interrotto: «Sì, certo, può chiamarmi così», in un impeto di vanità inaccettabile per le consuetudini tedesche. E quando gli è stato chiesto se intendesse ritirarsi ha replicato: «Io resto al mio posto anche se voi giornalisti fate di tutto per impedirlo».
Inarrestabile. Ha offeso ripetutamente il giovane leader dei liberali Guido Westerwelle, che è riuscito a zittirlo solo ricordandogli di non essere «più stupido di lui, nonostante la differenza di età». Ha provocato i verdi, alludendo a una loro intesa con il centro-destra e a un nuovo leader «al posto di Joschka Fischer». E soprattutto ha sfidato la Merkel, guardandola negli occhi: «Non diventerà mai cancelliere, certo non con il sostegno dell’Spd». Perché la Germania continuerà ad avere lo stesso condottiero: lui, solo lui, sempre lui.
E i media lo hanno rinnegato. Lunedì mattina gli editorialisti lo elogiavano per la straordinaria tenacia con cui aveva portato l’Spd a un risultato insperato. Era il cancelliere che non si arrende mai. Ventiquattro ore dopo quella virtù è diventata un difetto inaccettabile. Persino la moglie Doris ha ammesso che suo marito aveva esagerato.
Ora tutto appare in una luce diversa: la Germania è in crisi non tanto per un’inattesa disfunzione del sistema, ma soprattutto perché paralizzata dall’onnipotenza di un solo uomo: Gerhard Schröder. Alle elezioni di domenica l’Spd è andata meglio del previsto, ma ha perso, distanziata di 450mila voti. Eppure secondo il cancelliere quella sconfitta va considerata una vittoria. Come? Semplice: basta scorporare la Csu bavarese dalla Cdu, nonostante, da sempre, nel Parlamento federale formino un unico gruppo, nonostante a ogni elezione presentino un solo leader: Stoiber nel 2002, la Merkel ora. Uniti e fedeli; insomma, una sola cosa. Per chiunque, ma non per Schröder, che separando i seggi dei cristiano-sociali dai cristiano-democratici intende dimostrare che l’Spd è il primo partito e che pertanto il cancelliere deve essere lui.
I socialdemocratici, sorpresi dal buon risultato delle urne, per un po’ lo hanno seguito, poi si sono ricreduti e hanno trovato nelle reazioni all’indecoroso show televisivo il pretesto per ridimensionarlo, per indurlo - senza fretta, evitando inutili traumi - a uscire di scena. Lo chiede la corrente più importante dell’Spd; lo vuole lo stesso presidente dei socialdemocratici Franz Müntefering, che non ne può più di dividere la ribalta con il cancelliere, a dispetto della concordia che i due dimostrano in pubblico. I socialdemocratici hanno capito che, rimosso Schröder, si riaprono tutte le opzioni: Grosse Koalition guidata dalla Merkel, innanzitutto. Ma non solo. L’Spd potrebbe ricucire il rapporto con Fischer che, irritato dalle intemperanze del cancelliere, flirta a distanza con la Cdu e i liberali. E i due partiti non sarebbero più costretti a escludere la soluzione più clamorosa: un governo con il nuovo partito dell’estrema sinistra, fondato qualche mese fa dal transfuga Oskar Lafontaine, proprio in odio a Gerhard. Ieri un dirigente del Pds è uscito allo scoperto: «Se vi liberate di lui, il dialogo riparte». Tutto congiura contro Gerhard, il tribuno a un passo dal tramonto.
marcello.

foa@ilgiornale.it

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