Ci sono voluti dieci giorni per mettermi in contatto con Massimo Fini. Il fatto è che io, ormai inghiottito con tutta la coda da certi riflessi condizionati della «modernità», mi ostinavo a cercarlo sul telefonino, che squillava tragicamente a vuoto. Anche i messaggi lasciati sulla segreteria non hanno mai avuto risposta. Poi, all’undicesimo giorno, un lampo. Compongo il suo numero di casa. Al terzo squillo, eccolo all’apparecchio. «Il cellulare? Ogni tanto me ne dimentico, lo ammetto», si scusa ora Massimo, un po’ imbarazzato. E i messaggi? «Eehh... c’è da armeggiare... E io ho un rapporto un po’ conflittuale con la tecnologia», dice carezzando con lo sguardo la sua antidiluviana Olivetti lettera 32 con la quale si ostina a scrivere i suoi articoli e i suoi libri.
Questo era il preambolo, necessario per inquadrare il tipo di antimodernista (ma non «inattuale», obietta lui) che andavo cercando. L’articolo vero e proprio comincia qui, e il lettore perdonerà se comincia con una affettuosa banalità. Il fatto è che strada facendo ci siamo convinti che si stava meglio quando si stava peggio, come già sospettava Longanesi. Ci siamo convinti, intendiamo dire, che il modello di sviluppo messo in piedi dall’Occidente a partire dalla rivoluzione industriale, lungi dall’aver creato il «migliore dei mondi possibili», come era nelle premesse, e nelle promesse, non ci ha affatto reso più felici. Al contrario. Quel modello, variamente declinato dal marxismo e dal liberalismo, ma sempre e parossisticamente teso alla crescita dell’economia (e al suo totemico corollario: il consumo frenetico e scervellato) ha creato una società di nevrotici e spensierati cani da corsa persi all’inseguimento di una lepre di pezza che, per come è strutturato il gioco sono destinati, nonostante la lingua a penzoloni, a non raggiungere mai. Un modello che crea depressione, angoscia, stress, nevrosi, e dunque masse crescenti di spostati. Ne valeva la pena?
A porsi la domanda, e a rispondersi che no, non ne valeva la pena sono ormai in tanti. Una schiera crescente di individui, di uomini e donne che hanno tra i loro punti di riferimento uomini controcorrente come Fini, o Maurizio Pallante, sostenitore della «decrescita felice», o come il filosofo e antropologo francese Serge Latouche, nemico dell’universalismo economicista.
Massimo Fini cominciò a porsi la domanda nel 1985, con La Ragione aveva Torto?. Libro a suo modo profetico, giacché era proprio in quelle pagine, che sottoponevano a una critica radicale la Modernità, che andava lievitando quel fenomeno che oggi definiamo col termine no global. Fenomeno artificiosamente e interessatamente fatto proprio dalla sinistra, ma che di sinistra non è. «Perché nelle sue fibre più profonde il movimento è antiprogressista e antimodernista e quindi in totale antitesi con tutta la storia della sinistra», commenta Fini.
Come, per quali vie, lungo quali sentieri si è incamminato l’Occidente a partire dalla rivoluzione industriale, e passando per il Secolo dei lumi, convinto di avviarsi verso il «Paese delle meraviglie»? Chi vorrà ripercorrere i tre passi nel delirio che ci hanno portato a giudicare indispensabile l’ultimo, inutile gadget proposto (imposto) dal demone del consumo, e quale ferrigno meccanismo abbia incatenato al modello anche le popolazioni di un Terzo mondo che avevano concezioni di vita e vissuti diversi; chi vorrà, dicevamo, potrà mettersi sul comodino quel Vizio oscuro dell'Occidente. Manifesto dell’Antimodernità che Fini pubblicò sei anni fa ed è già alla sesta edizione. O immergersi nel Manifesto che Fini ha pubblicato nel sito che porta il suo nome.
Va di moda, naturalmente, accusare l’America di essere lei la principale responsabile della profonda frustrazione che ha colto noi occidentali (a partire sostanzialmente dal secondo dopoguerra). Responsabili in realtà siamo noi tutti. «Non ci siamo accorti - dice Fini, ribadendo concetti che va martellando da oltre vent’anni, cantando fuori dal coro - che in questo modello di sviluppo, basato sull’ossessiva proiezione nel futuro, invece che sulla ricerca dell’armonia in ciò che già c’è, l’uomo non può mai raggiungere un punto di equilibrio e di pace, ma colto un obiettivo è costretto dall’inesorabile dinamismo del sistema ad inseguirne un altro, in un’affannosa corsa priva di senso che ha termine solo con la morte dell’individuo».
Eppure, gli dico, liberalismo e marxismo giuravano entrambi di avere la ricetta magica in tasca: il più grande benessere per il più grande numero di uomini, se non per tutti...
«Liberalismo e marxismo sono solo due facce della stessa medaglia - corregge Fini -. Entrambi nascono dalla rivoluzione industriale. Sono illuministi, progressisti, ottimisti, modernisti, economicisti, e pervasi dal mito del lavoro. Due filosofie di pensiero che si dividono solo sul modo di produrre e distribuire questa ricchezza. Con la differenza che il marxismo è un industrialismo inefficiente».
Maurizio Pallante, teorico della «decrescita felice», fa questo ragionamento: «Il primo passo da compiere per sciogliersi da questi vincoli è capire che la crescita non è al servizio degli uomini, ma anzi li subordina alle sue esigenze costringendoli a produrre quantità sempre maggiori di merci e a consumarle per continuare a produrne quantità sempre maggiori». Che fare dunque? «Per diventare padroni del proprio destino occorre ridurre l’incidenza delle merci nella propria vita, acquistando solo l’indispensabile senza cedere alle false lusinghe del consumismo, ampliando l’autoproduzione di beni e potenziando gli scambi non mercantili». Ridurre il Pil, il prodotto interno lordo, secondo Pallante non significa regredire, far crollare l’occupazione, «ma trasferire la forza lavoro, grazie alle innovazioni tecnologiche non finalizzate ad accrescere la produttività, verso i settori (è solo un esempio) diretti alla riduzione del consumo di risorse, l’inquinamento e i rifiuti a parità di produzione».
«L’errore è aver posto l’economia, e la sua logica dello sviluppo, al centro, spingendo l’uomo e i suoi bisogni veri ai margini», sostiene Fini. Eppure, non c’è barba di politico, di economista, di sindacalista che non batta sul chiodo di sempre: «Stimolare i consumi per aumentare la produzione».
Concetto che Fini giudica paranoide, giacché al punto in cui siamo arrivati «noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre. Il meccanismo non è al nostro servizio, e da uomini che eravamo siamo diventati consumatori, scontando una paurosa perdita di identità».
Ma come: non si era detto che il modello di crescita messo in piedi negli ultimi due secoli avrebbe trovato al suo interno gli antidoti alla catastrofe derivante dal saccheggio indiscriminato delle risorse del pianeta? E lo sviluppo sostenibile? Dov’è finito?
«Lo sviluppo sostenibile - risponde il filosofo Serge Latouche - è un simpatico ossimoro, come “l’oscura chiarezza” di Victor Hugo. Mi ricorda la strada per l’inferno, che è lastricata di buone intenzioni. Il problema non è tanto nel termine sostenibile, che è tutto sommato una bella parola, quanto nella parola “sviluppo”, che è decisamente un termine tossico».
Anche l’uguaglianza e la felicità, i due grandi miti che l’Illuminismo ha sventolato sotto il naso del genere umano, si sono rivelati per quel che erano: una garbata truffa. Una puerile illusione. «Nelle società industriali le disuguaglianze economiche non sono diminuite ma aumentate - osserva Fini -. Quanto alla felicità... La sapienza antica era consapevole che la vita è innanzitutto fatica e dolore, e se ogni tanto c’è qualche gioia da registrare, è tutto grasso che cola».
Omologazione, standardizzazione, appiattimento di tutte le culture a un unico modello, quello dominante. È questo il Moloch che ci sovrasta. E per alimentarsi, come un mostro mite ma insaziabile, chiede ai suoi adepti tempo (tempo libero compreso, mercificato lui pure) smemoratezza rispetto ai bisogni dell’anima, perché tutto viri poi in produzione, consumo, crescita, competizione. La predica che Massimo Fini rivolge dal web attraverso il suo Manifesto è questa: «Tornare in modo graduale, limitato e ragionato a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano necessariamente per un recupero della terra e un ridimensionamento drastico degli apparati industriali e virtuali. Ogni forma di localismo che non preveda questo ritorno si riduce a semplici aspetti folklorici».
Decrescere, dunque. «Ovvero - conclude Latouche - rinunciare all’immaginario economico, cioè alla convinzione che di più per tutti significhi più uguaglianza. Il benessere e la felicità si possono raggiungere a costi inferiori.
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