Centocinquantamila secondo Silvio Berlusconi. Centotrentaduemila secondo i vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Per la prima volta, ieri, i dati sulle intercettazioni in Italia forniti dal Cavaliere e dalle toghe si avvicinano robustamente, anche se non arrivano a coincidere. Dopo anni di battaglia delle cifre, è sicuramente un passo avanti. Tanto che l’evento viene sottolineato, con una certa soddisfazione, da Il Velino e da alcuni esponenti del centrodestra: come il portavoce del Pdl Daniele Capezzone,che parla di«autogol » e di «ammissioni» da parte del segretario dell’Anm Luca Palamara. In realtà, se le cifre si assomigliano, continuano a divergere radicalmente le analisi sul loro significato. Secondo Berlusconi, ogni utenza sotto controllo va moltiplicata per cinquanta, perché ogni telefono è in contatto con molti altri, e anche questi vengono ascoltati: «Significa che ci sono sette milioni e mezzo di italiani sotto controllo». L’Anm replica che quella di un Paese ascoltato in blocco è «una vulgata» priva di senso. Ma come stanno veramente le cose? I primi a formulare numeri impressionanti sul numero di italiani incappati nel Grande Orecchio erano stati in realtà, già nel 2005,i ricercatori dell’Eurispes che avevano parlato addirittura di «29 milioni e duecentomila in un decennio». Cioè una media di poco meno di tre milioni di italiani l’anno. Recentemente, ad un editorialista che aveva messo in dubbio l’attendibilità dei dati, il presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara ha replicato che secondo i dati forniti dal Copasir (il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, presieduto da Massimo D’Alema) il solo Gioacchino Genchi, consulente di diverse procure, «dal 2004 al 2008, ha chiesto le intestazioni anagrafiche di utenze fisse e mobili di 5 milioni e mezzo di persone. Si tratta di quasi il 10% della popolazione, bambini inclusi». Proprio questa affermazione è però utile per capire come vengano in realtà forniti dati di natura disomogenea. Le Procure utilizzano infatti tre livelli di invasione nelle comunicazioni dei cittadini: le intercettazioni vere e proprie; i tabulati, ovvero l’acquisizione di tutti i numeri entrati in contatto con una data utenza; le anagrafiche, cioè l’acquisizione dei nomi degli intestatari di una certa utenza. I dati forniti dal ministero della Giustizia riguardano solo le intercettazioni vere e proprie. Non ci sono dati né sulle anagrafiche né sui tabulati, per un motivo semplice: i tabulati degli ultimi due anni possono essere acquisiti dalle Procure senza bisogno di alcuna autorizzazione da parte dei giudici preliminari. A differenza delle intercettazioni, i tabulati costano poco. E le Procure vi fanno ricorso in modo massiccio e sostanzialmente senza controllo. L’Anm sostiene che si tratta di dati meno «invasivi» della privacy, poiché non riportano il contenuto delle conversazioni. Ma è proprio grazie ai tabulati che milioni di nomi di italiani, entrati in contatto con indagati anche anni prima dei fatti, si ritrovano inseriti negli archivi delle Procure e dei loro consulenti, al riparo da ogni cancellazione e da ogni authority. Se questo è verosimilmente il vero «buco nero» nella tutela della privacy, più complesso è stabilire quanti siano invece gli italiani che incappano accidentalmente (cioè senza essere indagati) nelle 132mila intercettazioni annue ammesse dall’Anm.
Ma c’è un altro dato su cuifinalmente i conti dei magistrati coincidono, e stavolta alla virgola, con quelli del premier: i 272 milioni spesi nel 2009 dal «sistema giustizia» per intercettare. Più di 4,5 euro per ogni cittadino. Il record del mondo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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