No, non cerchiamo di mischiare le carte: durante la 
perquisizione a casa mia i carabinieri non si sono  limitati a farsi 
«consegnare gli abiti per la ricerca di documenti o pen-drive», come 
sostiene ora in una nota la Procura di Roma.
Come ho già raccontato
nel mio articolo di martedì, sono stata  fatta entrare in bagno da una
donna carabiniere che mi ha chiesto  di togliermi i vestiti e, 
malgrado  la mia sorpresa e il mio imbarazzo, anche la biancheria intima. 
  Questo per il procuratore della Repubblica di Roma
Giovanni Ferrara vuol dire «pieno rispetto delle regole imposte dal 
codice, in particolare,  della dignità e del pudore  »? Io ho molti 
dubbi. 
  A me quel che è successo è sembrato un sopruso, un
provvedimento abnorme, gratuito e intimidatorio. Ma forse il mio 
concetto di dignità e pudore è diverso da quello  dei Pm. 
  Con questo non voglio dire  che i carabinieri 
siano andati oltre  i loro ordini, che abbiano  compiuto abusi, siano  
stati scorretti o brutali. Erano anzi gentili, ma la pesantezza  delle 
loro azioni stava nella sostanza. I rappresentanti  dell’Arma eseguivano
gli ordini della pm Silvia Sereni. E lei, una donna  e questo mi 
colpisce in modo particolare, aveva disposto  una perquisizione 
«personale», oltre che quelle  «locali», prima a casa mia e poi in 
redazione, con sequestro  di tre computer, agende e documenti.  Neppure 
ho mai detto che mi abbiano toccato. Ci mancherebbe  pure. E quindi mi 
sembra inutile, una  excusatio  non petita ,
la precisazione  della Procura sul fatto che i carabinieri abbiano 
evitato  «qualsiasi contatto fisico  con la persona». Insomma,  dopo la 
precisazione un po’ sorprendente della Procura,  posso solo confermare, 
parola per parola, quanto  ho già raccontato ai lettori.  Un fatto che 
ha fatto montare  le polemiche, da parte di politici dei due 
schieramenti  e di tanti giornalisti. 
  Ecco, la mia impressione di essere stata vittima 
di un provvedimento quanto meno  eccessivo viene confermata in  questi 
giorni da decine  di telefonate, sms, e-mail e dichiarazioni pubbliche 
di colleghi, anche rappresentanti  dell’Ordine professionale  e delle 
associazioni di categoria, che manifestandomi la loro  solidarietà 
affermano di non aver mai subito una procedura così imbarazzante,  anche
se indagati e neppure di aver sentito di altri  sottoposti ad un 
trattamento  del genere. 
  Perché tanto accanimento?  È questa la domanda. È 
normale e «secondo le regole  » che una giornalista venga  costretta a 
rimanere nuda  di fronte a un’esponente delle forze dell’ordine, senza  
nemmeno essere indagata? 
  Certo, nel fronte giornalistico  le falle ci sono 
eccome. Se è vero, com’è vero, che la mia presunta fonte è stata 
denunciata  per prima proprio da un altro giornale, appena il giorno 
dopo la pubblicazione  del mio articolo del 27 gennaio, sugli atti del 
processo  disciplinare subito negli anni ’80 al Csm dalla pm milanese  
Ilda Boccassini. Siamo  alla denuncia tra colleghi?  Alla faccia della 
nostra deontologia professionale e della difesa della segretezza delle 
fonti, principio fondamentale che dovrebbe accomunare tutti i 
giornalisti.  Nello stesso comunicato la Procura spiega la tempestività 
della sua azione. Ricorda  che l’indagine è «iniziata  a seguito di 
denuncia proveniente dal Csm, nella quale venivano rappresentate,  tra 
l’altro, ragioni di urgenza per assicurare  l’acquisizione  di prove 
reperibili anche all’interno del Csm». E in seguito a questo input i Pm 
hanno proceduto alle perquisizioni che mi riguardano  e «ad adottare 
provvedimenti cautelari per conservare  lo stato dei luoghi al fine  di 
poter procedere all’acquisizione  degli elementi di prova dopo aver 
informato, come prevede la legge, l’indagato  (il consigliere laico 
Matteo Brigandì, ndr) al fine di consentirgli di essere presente con  
l’assistenza del difensore  ». 
  Insomma, sarebbe tutto normale. Anche se si 
racconta  della telefonata di fuoco fatta dal capo della Procura di 
Milano, Edmondo Bruti Liberati, al vicepresidente del Csm Michele 
Vietti, dopo  l’articolo de  il Giornale. 
 Vedo che anche l’Associazione dei  penalisti 
italiani registra  «l’inusitato spiegamento  di mezzi processuali con 
cui, ancora una volta, la magistratura reagisce quando  viene coinvolto 
un collega  ».
Gli avvocati dell’Ucpi, che pure esprimono «ampie riserve » sulla pubblicazione de il Giornale (lo chiama addirittura «scoop, strumentale e bacchettone »), in una nota scrive: «Mentre tante Procure leggono sonnacchiose sui quotidiani gli atti dei propri processi di cui per legge è vietata la pubblicazione, quando viene interessato un magistrato scattano prontamente i sigilli alle stanze di un organo costituzionale e si perquisiscono con altrettanta solerzia quelle di un giornale, anch’esso avamposto del diritto di manifestazione e diffusione del pensiero, difeso dalla Costituzione». E la giunta dell’Ucpi si chiede che necessità ci sia «di custodire come il terzo segreto di Fatima gli atti dei procedimenti disciplinari dei magistrati risalenti a trenta anni fa». Ecco, perché?