Un quintetto di amici storici, la mezza età che incombe sulle loro teste, una voglia indissolubile di restare insieme e ridere senza prendersi mai sul serio. Perché l’unica cosa che conta nella vita è ridere. Persino in quei momenti in cui sembra impossibile, anche quando tutto sembra andare male. Questo potrebbe essere il riassunto un po’ approssimativo di ciò che Mario Monicelli ci ha lasciato con il suo “Amici Miei”, film uscito nelle sale cinematografiche italiane cinquant’anni fa, nell’annata d’oro 1975. Firenze è la cornice di una storia agrodolce, che esalta il valore dell’amicizia e lo porta sull’altare dei sentimenti più profondi. Perché nel legame che tiene unite le vicende del conte Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), dell’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), del giornalista Giorgio Perozzi (Philippe Noiret), del barista Guido Necchi (Del Prete prima e Montagnani poi), e del professor Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi) è nascosto il segreto della felicità. Perché nell’amicizia è custodito quell’amore sincero che non pretende niente in cambio. Stiamo insieme, sì, ma quando ne abbiamo voglia.
Un linguaggio entrato nelle vite di tutti
In riva all’Arno, il maestro toscano Monicelli arriva in sostituzione dello scomparso Pietro Germi, per dirigere un capolavoro destinato a entrare nell’olimpo della cinematografia italiana e nel cuore della cultura italiana. Questa pellicola ha cambiato paradigmi e introdotto dei neologismi che tutt’ora utilizziamo nel linguaggio comune. La “zingarata”, una gita senza meta, senza obblighi e senza ordine di tempo. La “supercazzola”, un rigiro di parole utile per confondere l’interlocutore. Per non parlare della miglior definizione possibile di “genio” che, come tutti sanno, è: fantasia, intuizione e rapidità di esecuzione.

Ci sono, poi, le scene iconiche. Indimenticabile quella degli schiaffi del “buon viaggio” da destinare a tutte le facce di coloro che si sporgevano fuori dal finestrino del treno regionale in partenza. Un diversivo, un balsamo per lenire i dolori d’amore, una goliardata che solo amici molto complici possono compiere. Per non parlare del corteggiamento telefonico alla moglie del Sassaroli o della messinscena meschina ai danni del povero “Righi”, convinto di essere entrato in una banda di malavitosi intenti a combattere i rivali marsigliesi. E non andiamo oltre, per rispetto di chi ancora non è riuscito a visionare questo titolo imperdibile.
Uniti si vince
Ma, in fondo, qual è il messaggio che “Amici Miei” ci vuole lasciare? Che insieme siamo più forti. Quando la piena dell’Arno divora Firenze, rievocando la tragedia del 4 novembre del 1966 nel secondo capitolo della trilogia, i cinque sodali osservano da piazzale Michelangelo la città piegata dalle crudeli acque che hanno inghiottito tutto, comprese le speranze. “E ora che si fa?” si interrogano disarmati. “Lo sci d’acqua” esclama il Perozzi. E si torna a sorridere del domani con fiducia.
Nessuno viene lasciato indietro, un amico in difficoltà si aiuta sempre, come ci ricorda la colletta per il Mascetti, fatta di nascosto perché il conte è tipo orgoglioso. Lui, quando era ricco davvero e prima di sperperare un patrimonio miliardario, girava con un orso marsicano al guinzaglio. Infine, come ci ricorda l’ultima intensa scena, anche se il dolore di una scomparsa fa male, bisogna trovare la forza di reagire, e tornare a ridere anche con il volto rigato dalle lacrime. La vita d’altronde è anche questa e la morte fa parte della nostra esistenza.
Cosa ci resta di Amici Miei
A distanza di cinquant’anni, esiste ancora un’Italia come quella narrata da “Amici Miei”? Tutto è cambiato, i rapporti personali sono mutati.
La tecnologia ha sì avvicinato le persone ma le ha anche allontanate, riducendo le occasioni per frequentarsi dal vivo. Il mondo analogico era più fisico e vero. Ma non perdiamo la speranza, gli amici sinceri esistono tuttora. E ridere fa ancora bene come mezzo secolo fa.