Napoli - «Io non sono una belva in gabbia, non voglio comparire davanti a fotografi e giornalisti. Signor giudice, le comunico che d’ora in poi non presenzierò più al processo». In videoconferenza dal carcere dell’Aquila dov’è tuttora detenuto, lunedì scorso il capo dei capi casalesi, Francesco Schiavone detto «Sandokan», onorando il soprannome (per la somiglianza con l’attore Kabir-Bedi) ha ruggito come nemmeno la tigre di Mompracem di salgariana memoria. Eppure coi media il boss non ha mai rotto platealmente, anzi. Se a volte ha spedito i suoi uomini a minacciare chi gli scriveva contro, spesso ha approfittato della stampa per far pubblicare argomentazioni a sua firma dove - in codice - dirimeva conflitti interni e dava ordini ai luogotenenti in libertà. È dunque anche grazie ai giornali locali che il nome del Padrino casertano, sempre accostato a un soprannome che l’interessato ha fatto sapere di gradire poco, è diventato un’icona della Camorra Spa. Le cronache cominciano a occuparsi di lui sul finire degli anni Ottanta, col feroce regolamento di conti tra le famiglie di Antonio Bardellino e Mario Iovine. Il «tigrotto» di Casal di Principe lascia gli studi in medicina e si schiera in armi con il secondo, col quale uscirà vincente dalla prima mattanza anche grazie all’appoggio di Vincenzo De Falco, che poi finirà a sua volta ammazzato dal duo Schiavone-Iovine per aver spifferato ai carabinieri il luogo del summit dove cadrà Francesco Bidognetti, il quarto del gruppo.
Seppellito il socio delatore, Schiavone diventa Capo fra i capi casalesi. Pentiti e soffiate lo descrivono pieno di carisma, dall’animo imprenditoriale, poco incline alla gratuita macelleria che non porta soldi ma solo più sbirri e problemi. Forte di un esercito di mille uomini, «Sandokan» entra due volte in prigione ma esce sempre per scadenza termini. La terza volta, sarà anche l’ultima: l’11 luglio 1998 la Dia lo rintraccia sotto terra, in un bunker ricavato tra le fondamenta di uno dei suoi tantissimi rifugi. Nel covo Schiavone ha una biblioteca dedicata a Napoleone, il suo idolo, che Schiavone dipingeva sempre di spalle al contrario delle tante immagini del Cristo a cui il boss, con pennellate naïf, sostituiva il volto con una faccia più sorridente, la sua, incorniciata nei lunghi capelli corvini, un tutt’uno con barba, baffi e Ray-Ban a goccia. Tra una latitanza e l’altra, Sandokan ha preso in giro chi gli dava la caccia facendo partorire ben tre dei suoi sei figli alla moglie Giuseppina, sospettata di gestire l’indotto economico della Famiglia, comparsa ad aprile in tv per ironizzare sui successi editoriali di Saviano. «In Gomorra ha infilato, uno dietro l’altro, gli atti giudiziari degli ultimi 10 anni. E una cosa così la chiama anche libro?». Sempre in tv, stavolta alle Iene, in soccorso di Sandokan è accorso il padre: «Saviano è un buffone», ha tuonato. Non è una novità. La famiglia si è stretta sempre intorno a don Francesco, e a suo fratello Walter, famoso per atroci misfatti e per aver chiesto al suo architetto di costruirgli una villa identica a quella di Al Pacino-Tony Montana in Scarface. Per dormire tranquillo Sandokan aveva arruolato tanti familiari, tra cui due cugini: Francesco e Carmine. Il primo sta pagando la fedeltà col carcere, il secondo è l’unico Giuda: s’è pentito rivelando che Sandokan aveva anche due belle amanti, sottufficiali della Nato. A Carmine l’«infame» gliel’hanno giurata tutti, e anche la figlia non gliel’ha mandata a dire: «È un grande falso, un bugiardo, che ha venduto i suoi fallimenti. Una bestia. Carmine non è mai stato mio papà».
C’è e ci sarà un solo padre da queste parti: Francesco Schiavone. A cui hanno brindato tutti gli invitati al matrimonio del figlio Carmine, convolato a giuste nozze in coincidenza con i funerali dell’imprenditore Michele Orsi, impiombato a Gomorra.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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