
Trentaquattro anni fa, da questi parti, le strade erano affollate da facce meste. Una lenta processione sfilava via dall'Arena Garibaldi. C’era ancora Romeo Anconetani, il presidente che viveva di liturgie, sempre con un pugno di sale in tasca e il volante orientato verso il santuario di Montenero, per provvidenziali pellegrinaggi pre-partita. Parlava di "grande calcio a Pisa" ed un popolo intero sognava forte. Ma, dopo la risalita in Serie A, alla fine di quello schizofrenico 1991, l'abisso si apriva nuovamente. Nerazzurri sedicesimi. Di nuovo giù. Oggi, dopo oltre tre decenni cosparsi di pochissime gioie e parecchie ferite, il Pisa torna ad abitare in Serie A. L’ha riportato in alto Filippo Inzaghi, uno che di gol, promozioni e miracoli se ne intende. Ma per chi era già lì nel '91, in piedi in curva o appollaiato sui gradoni dell’Arena, non si tratta semplicemente di una promozione. Assomiglia, piuttosto, ad una liberazione.
Per comprendere quanto profondo sia questo ritorno, bisogna tornare all’inizio della fine. Stagione 1990-91: il Pisa è appena salito in A, con un promettente carico di garra e qualche tenera illusione. In panchina siede Luca Giannini, mentre il direttore tecnico è Mircea Lucescu, cattedratico del calcio venuto dalla Romania, a cui Anconetani affida un progetto ambizioso e incosciente. In campo fluttuano giovani destinati a carriere abbaglianti: Diego Simeone e José Chamot, due argentini sconosciuti che da lì avrebbero spiccato il volo. In attacco, Michele Padovano e Lamberto Piovanelli. In società, un solo uomo a comandare tutto: Romeo.
Il campionato pare l'incipit di un sogno. Tre giornate, sette punti. Clean sheet, nessun gol subito. Ma è un'illusione fragile, un riflesso traditore. La sostanza è friabile. Arrivano i rovesci: 4-0 a Firenze, 6-3 a San Siro contro l’Inter. Difesa che si sgretola, centrocampo che balla, attacco che si regge sulle invenzioni di Padovano. Piovanelli si rompe il ginocchio a dicembre, e da lì in avanti la squadra perde la sua anima.

Il 20 gennaio 1991, la vittoria per 2-0 all’Olimpico contro la Roma sembra poter alimentare di nuovo tutto, con Simeone già leader e Larsen metronomo. Ma è un fuoco fatuo. Nelle ultime otto giornate arrivano quattro punti soltanto. Nerazzurri sconfitti da Atalanta, Milan, Torino, Lazio, Juve e Roma. Pareggino contro il Cesena, soltanto una vittoria di misura sul Bari. Troppo poco per pensare di spuntarla.
Chi c’era, non ha mai dimenticato. Non ha scordato l’Arena sempre piena, la rabbia schiumante di Anconetani contro i “poteri forti”, i dribbling eleganti di Larsen, i gol disperati di Padovano, la voce spezzata del presidente in tv. Quella squadra possedeva talento e sfortuna, cuore e confusione. Fu retrocessione, ma anche seme piantato: Lucescu avrebbe girato l’Europa, Simeone sarebbe diventato El Cholo, Chamot avrebbe toccato il cielo con la Selección. Pisa, invece, cominciava la sua lunga discesa.
Fino ad oggi. Mucchi di tentativi andati a vuoto. Promozioni soltanto lambite. Tonnellate di frustrazione. Fino a Filippo Inzaghi, che ha rimesso insieme i pezzi, riuscendo a mantenere la barra dritta anche quando l'ingiocabile Sassuolo l'ha sorpassato, anche quando lo Spezia sembrava non voler mollare di un centimetro. Squadra solida, pubblico caldo, una città che non ha mai smesso di crederci. Tutt'altro che facile, scorrendo la lista delle concorrenti ai blocchi di partenza. Ma era scritto da qualche parte che il Pisa dovesse tornare.
Il passato pesa, sì, ma educa. E questa promozione, adesso, restituisce senso anche a quella vecchia stagione malandata.
Come se, dopo 34 anni quel Pisa retrocesso potesse finalmente riprendere la corsa. Lo farà un altro allenatore, altri uomini, un’altra storia. Ma il cuore sarà sempre lo stesso: nerazzurro, paziente, toscano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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