Ecco cosa c’entrano i cavoli con la merenda

Caro dottor Granzotto, grazie per averci svelato l’origine del gesto dell’ombrello e se non le è di troppo disturbo vorrei che appagasse una mia vecchia (ho passato da quel dì la settantina) curiosità e cioè come mai gli ortaggi sono all’origine di tanti modi di dire dei quali è difficile risalire al significato. Il cavolo ad esempio: cavoli a merenda, non vale un cavolo, testa di cavolo. Il finocchio: farsi infinocchiare, finocchio sinonimo di gay (e gay? Da dove viene?). La rapa: testa di rapa, cavar sangue da una rapa, eccetera. Ma non vorrei mettere troppa carne al fuoco.


La metta, caro Ferrari, la metta. Nessun disturbo: con certi argomenti ci vado a nozze. Cominciamo col dire che per secoli se non millenni il cibo era cibo, nutrimento. Non c’erano gli Slow Food, i Gamberi Rossi e la conseguente retorica del cibo come cultura, ricerca, sperimentazione, rivisitazione e tutte quelle balle là. Non c’erano gli chef e la fame, come si diceva, costituiva il miglior condimento. Oggi la fame non la conosce nessuno. Caso mai si conosce l’inappetenza. Gli alimenti, soprattutto quelli poveri, i legumi, erano dunque di casa, consuetudinari; appartenevano al lessico familiare. Naturale, quindi, che dessero origine a popolari modi di dire (ciò che non avviene oggi: possono forse i lardi di Colonnata o le formaggelle di fossa tanto care a Carlin Petrini e ai gagà enogastronomici?). Cominciamo allora col cavolo, sgombrando il campo da un equivoco: nel modo di dire «testa di cavolo» o «fatti i cavoli tuoi» il cavolo non c’entra. Quel «cavolo» è una forma eufemistica: sta per una parola che la decenza vuole ch’io taccia. «Cavoli a merenda» si dice perché il cavolo è di laboriosa digestione e poco gradevole quando riscaldato (recita il proverbio: cavolo riscaldato, prete spretato e serva ritornata fan vita avvelenata). Per queste ragioni, ed essendo la merenda uno spuntino leggero di cose non cucinate lì per lì, il cavolo, appunto, c’entra come i cavoli a merenda.
Il finocchio, ora. Col suo sapore deciso, il mitico vegetale (Prometeo sottrae a Giove il tizzone che avrebbe poi dato il fuoco all’umanità celandolo in una foglia di finocchio) ha la caratteristica di falsare il gusto, particolarità sfruttata dagli osti disonesti i quali, prima di servire la loro sbobba di vino, offrivano ai clienti allocchi spicchi di finocchio. Da cui «infinocchiare». Perché un gay può dirsi anche finocchio non lo so. Ma so che gay è l’acronimo di Good As You (valgo quanto te) che negli anni Sessanta comparve su magliette, distintivi e cartelli del movimento omosessuale americano. Infine, la rapa. Tanto insipida di tubero (o radice?) quanto saporita di foglie, le prelibate cime di rapa. Alimento dei più poveri, non se ne cava nulla, figuriamoci il sangue. Essendo poi di infimo valore, la rapa ha dato «testa di rapa» e «non vale una rapa», nel senso di cervello da nulla e cosa di nessun valore. Dalla rapa, il cui tubero (o radice?) appare glabro, senza peluria o radichette, viene anche «rapare», cioè tagliare i capelli a zero. Anche la rapa ha un suo curioso proverbio: donna nuda e rapa dura portan l’uomo a sepoltura. Va bene che i proverbi sono la saggezza del popolo e che Platone assicurava fossero ciò che restava dell’antica filosofia, conservati grazie alla loro concisione ed efficacia.

Va bene che già nel Medioevo la Scuola salernitana aveva mostrato che la brassica campestris (rapa) provoca fortissimi dolori di pancia se assunta poco cotta. E non parliamo degli ammonimenti a non sfrenarsi negli atti impuri, com’erano definiti quando si andava a Catechismo.. Però, diamine, rimetterci la ghirba...
Paolo Granzotto

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