Una nuova destra sta emergendo negli Stati Uniti. Ed è molto diversa da quella neoconservatrice dell’era Bush. È ottimista, moderata e, anziché essere ossessionata dall’11 Settembre e dalla crisi economica, rimette al centro l’uomo. Vuole spazzare via le paure, l’ossessione per la sicurezza, l’arroganza di certe élite intellettuali, riscoprendo la libertà e i diritti individuali. Un ritorno alle origini.
Il suo rappresentante più autorevole è Arthur C. Brooks, cattolico, docente di Economia e politiche governative alla Syracuse University. Pochi giorni fa è stato nominato alla presidenza dell’American Enterprise Institute, il centro studi celebre per essere il feudo dei neoconservatori, dove succederà a Christopher DeMuth, che è rimasto in carica per ben ventidue anni. Una svolta epocale. Brooks parla un’altra lingua. Crede nella famiglia e nella religione, ma senza accenti massimalisti e proclama che la destra deve incentivare il perseguimento della felicità, rivalutando uno dei diritti fondamentali sancito dalla Dichiarazione americana d’Indipendenza, di cui negli ultimi anni si era persa memoria. Il suo è un approccio pragmatico, ottimista, sensibile alla spiritualità, come spiega in questa intervista concessa al Giornale.
Professor Brooks, nel suo ultimo libro Gross National Happiness, lei scrive che i conservatori sono più felici dei progressisti. Da che cosa lo deduce?
«È una costante dimostrata dai sondaggi e dalle analisi sociologiche svolte nel corso degli anni: il 44 per cento dei conservatori si dichiara felice contro il 25 per cento dei liberal. Inoltre i primi risultano decisamente più ottimisti rispetto ai secondi».
Come si spiega?
«Ho riscontrato due motivi “demografici”: gli elettori di centro-destra, perlomeno in America, sono mediamente più religiosi di quelli di centrosinistra e tendono ad essere sposati. La fede e il matrimonio migliorano notevolmente la qualità della vita. Più in generale, rilevo una differenza attitudinale e di valori. I conservatori vedono la società come un insieme di persone che individualmente pensano di poter migliorare la propria posizione personale, economica, sociale. Sono persuasi che lavorando duramente si possa risolvere qualunque difficoltà; e dunque ritengono di poter essere maggiormente padroni del proprio destino. I progressisti, invece, concepiscono il progresso solo in termini collettivi e pensano che lo sforzo del singolo sia inutile; pensano che la felicità possa essere portata dallo Stato, dal governo e questo è un errore colossale».
Perché?
«Lo Stato che spende di più non rende appagati i cittadini. Infatti nei Paesi dove lo Stato sociale è molto presente (come la Francia), il livello di soddisfazione non è più alto di quello riscontrato nei Paesi dove l’assistenzialismo è meno pronunciato. Anzi, le compensazioni di massa attraverso le redistribuzioni fiscali creano dipendenza, deresponsabilizzando la gente e incoraggiando gli abusi. Un uomo che vive senza lavorare a carico della collettività non è certo appagato; spesso è un uomo frustrato, pessimista. Le dirò di più: l’interventismo statale è la principale fonte di infelicità al mondo».
Però anche l’America dopo l’11 Settembre ha attribuito allo Stato più poteri. Sbagliando?
«Ci sono stati eccessi in risposta a una situazione eccezionale, ma credo sia giunto il momento di cambiare rotta. Se un cittadino non è libero, non può perseguire la felicità e dunque le conseguenze di lungo periodo sono disastrose per la società. L’amministrazione Bush ha sbagliato a imporre limitazioni alle libertà di viaggio che oggi appaiono ingiustificate e senza utilità reale: servono solo a generare nella gente la sensazione di sicurezza. Ma il clima nel Paese è cambiato ed è ora di voltare pagina. Bisogna tornare a difendere le tre libertà fondamentali: politica, economica e religiosa».
Lei scrive: occorre ridefinire i valori. In che senso? Il liberismo non basta più?
«La libertà economica e il capitalismo restano fondamentali. Però nella nostra società sono maturate altre esigenze. Il problema della sinistra è che vede tutto solo in termini materialistici. D’altro canto anche il messaggio della destra fondamentalista religiosa appare dogmatico, moralista e pertanto inadeguato. Invece sempre più i cittadini cercano un nuovo equilibrio tra benessere economico e valori personali come la realizzazione personale, la famiglia, la spiritualità».
Lei dice: i soldi non possono comprare la felicità. E dunque?
«Ormai è provato dagli economisti: nelle nazioni sviluppate, all’aumento del reddito non corrisponde un incremento permanente della felicità. Ciò non vuol dire che il guadagno non sia necessario, al contrario. Ma la felicità è strettamente correlata al dare, allo slancio nell’aiutare gli altri. La ricchezza deve servire a se stessi, ma anche a far del bene. Ancora una volta gli studi lo dimostrano: quando la carità è autentica determina un livello di felicità altissimo. Però non deve essere obbligatoria, né anonima, né di massa, ma individuale e per questo armoniosa».
Quanto conta il successo nel perseguimento della felicità?
«Tantissimo, ma non va più considerato solo in termini di carriera o in relazione al proprio conto in banca, ma soprattutto in termini di appartenenza: sapere chi siamo, che senso ha la nostra vita, come serviamo la famiglia, la comunità, il Paese. Rispondere a queste domande significa definire un’identità e dunque porre le basi per risolvere in maniera innovativa le sfide del mondo di oggi, significa dare un senso a riforme, come la diminuzione delle tasse, che altrimenti rischiano di essere fraintese o esaminate con il paraocchi seguendo schemi ormai superati».
Oggi però si respira un clima di grande sfiducia. C’è troppo pessimismo nelle società occidentali?
«Sì, con un problema in più: è contagioso. Esaminiamo la situazione odierna. Siamo in recessione. Eppure qui negli Usa la disoccupazione resta sotto il 6 per cento e l’economia non crolla, mentre 50 anni fa avremmo avuto un tasso di disoccupazione del 25 per cento e conseguenze paurose sulla società.
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