Ecco la lingua che uccide tutte le lingue

Una delle cause più significative del tramonto dell’Occidente è la distruzione delle lingue nazionali cioè, più precisamente, di quelle che definiscono la prima, essenziale forma di identità di un popolo.
Quando il filosofo tedesco Oswald Spengler sosteneva questa tesi agli inizi del ’900, veniva considerato dai celebri professori delle accademie europee un pazzo visionario. Come si possono dire sciocchezze del genere, osservavano gli illustri accademici, quando l’Europa rappresenta il faro della civiltà mondiale?
In realtà Spengler interpretava semplicemente ciò che stava accadendo con più arguzia e lungimiranza di molti studiosi, presentando un’analisi lucida e disincantata sul destino dell’Europa estremamente utile per comprendere oggi gli effetti dell’impoverimento delle nostre lingue e della cosiddetta integrazione degli stranieri che arrivano nei Paesi europei.
Con la Prima guerra mondiale l’Europa, diceva Spengler, ha cessato di esistere come realtà culturale nella sua diversità di lingue e costumi. Il Vecchio Continente non esiste più da quando qui sono sbarcati gli americani per aiutare le democrazie a vincere la guerra. E la prima forma di dominio in cui si è manifestata l’incruenta, anzi amichevole azione espansionistica statunitense si è avuta proprio attraverso la loro lingua. I primi ad accorgersene furono, non a caso, gli inglesi, che si trovarono in casa gente che pretendeva di parlare la lingua di Shakespeare storpiandola nei vocaboli e involgarendola nell’accento.
È trascorso un secolo e gli effetti di quella lontana invasione linguistica sono ormai diventati una realtà linguistica. Oggi parla l’inglese mezzo miliardo di persone, ma che idioma viene parlato? L’Oxford Dictionary conta 615mila termini, il mondo parla inglese con 1500 vocaboli.
Bene, cosa c’è di male nel semplificare una lingua? In fondo ciò è sempre accaduto con la presenza di doppie e triple forme espressive della stessa lingua per poter comunicare con strati sociali diversi. Ma, rispetto ad oggi, c’era una differenza fondamentale: la lingua colta era assolutamente vitale sia come riferimento educativo e formativo, sia come nucleo essenziale dell’identità culturale di un popolo. Oggi, appunto, la situazione si è rovesciata. L’inglese semplificato, che ormai ha anche un nome («globish»), sta diventando la lingua madre del pianeta: si calcola che fra dieci anni sarà parlata da oltre due miliardi di persone, cioè da tutta la popolazione della terra che intrattiene una comunicazione di lavoro o di svago al di fuori delle quattro mura domestiche.
Va sottolineato che, per uno scambio culturale vero e proprio, è necessario padroneggiare bene una lingua, generalmente quella del proprio Paese. Il «globish» non consente questo scambio: è una specie di alfabeto Morse, utile per un rapido ed essenziale passaggio di informazioni. È facile immaginare come la praticità del «globish» s’imporrà nel mondo per un semplice e ovvio processo utilitaristico per cui il semplice scaccia il complesso. L’integrazione tra i popoli avverrà spontaneamente; lo sosteneva, tra mille polemiche, un secolo fa, Spengler, e oggi è una facile previsione. Attraverso una lingua senza cultura, che drammaticamente renderà evidente l’inutilità della cultura per l’identità e l’emancipazione di un popolo, e che trasformerà in lingue morte, come il latino e il greco classico, l’italiano, il francese e il tedesco e lo stesso inglese.

Chi si preoccupa del modo in cui integrare in Europa gli immigrati, non si dia pena: se non comprenderemo innanzitutto il significato culturale delle nostre lingue, e in secondo luogo non difenderemo opportunamente il loro valore comunicativo, saremo noi europei che ci integreremo lentamente ma inesorabilmente in un mondo che non avrà più né significative differenze culturali, né avrà nella cultura il proprio fondamento.

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