Alla fine, quando esci dal Palazzetto del Fiorello Show e ci ripensi e commenti, tra le pozzanghere nel buio di Assago, il volto si distende nel sorriso del buonumore. Hai assistito a due ore di gag, canzoni, balli, prese per i fondelli, provocazioni, giochi di parole, allusioni dirette e mediate. Hai seguito il mattatore nel suo viaggio musicale dall’attualità scabrosa della Sexpolitik alle canzoni strappalacrime degli anni ’40 e ’50 fino alla futurologia balorda di 2012 e dei Maya. Attraverso una trovata tecnologica sei persino finito sul palco insieme a tutta la platea del Palazzetto, mentre cantavi saltellando lo stralunato ritornello di Umberto Balsamo («Sciolgo le trecce ai cavalli...»). E ora, mentre cammini verso il parcheggio, sei più disteso di quando sei arrivato.
Il merito è di Rosario Fiorello, artista universale, ecumenico, eclettico, interclassista, trasversale nei contenuti e nei generi dell’intrattenimento come forse nessuno. Politica? Certo che ne parla. Anzi, entra a tutta velocità nelle curve pericolose di scandali e scandaletti di Palazzo («Una volta eravamo noi uomini di spettacolo i drogati, i dissoluti. Ora non ce la facciamo più a star dietro a tutto quello che succede...»). Però lo fa senza mai eccedere, partendo dalla compassione che si tramuta in leggerezza. In ironia perché è anche autoironia. Tutt’altra lingua rispetto a quella della satira pungente, sulfurea, killerosa che intinge la risata nel rancore, nella frustrazione, nella predica, secondo le diverse gradazioni: da Maurizio Crozza a Luciana Littizzetto fino a Sabina Guzzanti. Non è questione di qualunquismo o moralismo. Ma è una questione di sguardo: da una parte tutto umano, dall’altra prevalentemente o solo politico.
L’altra sera, davanti a un parterre pieno di vip («ce ne sono più che nelle prime otto pagine di Diva e Donna»), da Tronchetti Provera e Afef a Ferruccio De Bortoli, da Ignazio La Russa ad Aldo Grasso, da Roberto Vecchioni al demi-monde della Tivvù (Federica Panicucci, Giorgia Surina, Melissa Satta...), Fiorello non si è risparmiato niente: «Sono sbigottito da tutti quei milioni chiesti da Veronica Lario per il divorzio. Mi dicono che il direttore del Corriere è qui in sala. Ah, eccolo lì: perché non prepara dieci domande a Veronica per sapere come li spenderà?».
Poi ci sono la mimica e l’intercalare classico siciliano (minchia!). Ma Fiorello non ha missioni speciali da compiere. E questa è la sua forza, quella che gli permette di non prendersi troppo sul serio. «Noi facciamo tutto per ridere, per gli applausi...». Pausa: «E per i soldi».
Patrizia D’Addario è andata a Palazzo Grazioli, poi è finita sul lettone di Putin «nuda, con il registratore... Immaginiamo la scena: dove poteva nasconderlo il registratore?». Ma non è servito. Anzi, la popolarità di Berlusconi è cresciuta ancora. «Vuol dire che lo scandalo sessuale funziona, avranno pensato a sinistra... Cosa ci troverà un uomo ad andare con un trans? Magari quel qualcosina in più...».
Però la Sexpolitik è solo una parte dello show. Perché, va bene, la politica è importante. E le guerre dei giornali anche. Ma tutti noi viviamo dentro una quotidianità fatta di piccole e fastidiose grane. E Rosario ci alleggerisce con uno spettacolo circolare confezionato dalla regia di Giampiero Solari nella migliore tradizione del musical, del concerto pop ma incorniciato dal sipario teatrale e raffinato dagli ologrammi nei quali spuntano a sorpresa i tre Pooh orfani di Stefano D’Orazio («li ha lasciati perché Roby, Red e Dodi volevano abbreviasse il suo nome in Stefy»), il balletto zombie di Thriller, un mefistofelico La Russa che sprofonda tra le fiamme dell’inferno. Fiorello va a zig zag tra le generazioni, i rispettivi revival e modi d’essere nostalgici. I cinquantenni, affezionati ai cantautori, riproposti ognuno con una semplice intonazione, una nota, un gorgoglìo. I loro genitori, che si nutrivano di canzoni mortifere come Mamma, mormora la bambina («provate a dire oggi a vostro figlio che sta smanettando al computer “vieni che ti compro un balocco” e vedete un po’ come vi risponde»). I ventenni che amano i Tokio Hotel e per i quali «il revival sono io, quello del karaoke». Il fatto è che è anche cambiata l’idea del futuro, del benessere, del progresso. Quand’era giovane lui, Fiore, il futuro erano gli alzacristalli elettrici, le porte a vetri scorrevoli. Adesso siamo tutti intrippati dal digitale terrestre: «Avete mai provato a guardare cosa fanno i cavi nascosti dietro il televisore? Si attorcigliano, si accoppiano, figliano...». Una volta il salvatore della quiete domestica era l’idraulico. Ora è l’antennista. Arriva, risolve, spiega. Se ne va.
Si ride spensierati, anche di se stessi, dei propri tic. Pian piano si distende la ruga della fronte. Si esce col sorriso. Senza bava alla bocca.
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