Ecco perché sbagliate a farlo

Caro Paolo e caro Francesco,so bene che non c’è niente di più insopportabile del tono paternalistico, specie se scandisce un discorso che inevitabilmente rischia di venir digerito - anzi, di restare sullo stomaco - come una predica sul senso del dovere. Tuttavia non posso usare altro tono che quello paternalistico, perché io sono (appunto) un padre, e voi dei figli. Quindi così vi scriverò, anche se so che mi renderò antipatico.
Ma proprio questo è il punto. È che ora noi adulti accantoniamo l’ossessione di renderci simpatici, di cercare il vostro consenso, di ottenere il vostro gradimento. È stato proprio per via di questa ossessione che una dozzina di anni fa sono stati cancellati gli esami di riparazione, che ora il ministro Fioroni vuole reintrodurre, e che voi invece vorreste seppellire per sempre.
Con quegli esami siamo cresciuti noi - che viaggiamo più o meno sulla cinquantina - i nostri genitori e i nostri nonni. Non mi pare che ne siamo rimasti traumatizzati. Anzi. La minaccia di un’estate passata sui libri invece che in spiaggia ci induceva a studiare quel che bastava per chiudere i conti a giugno; e se ci capitava di dover rimediare a settembre, la seccatura era tale da spronarci a non ricadere nell’errore. Posso dire una banalità assoluta, pure questa molto retrò? Quel sistema ha contribuito a renderci un pochino più responsabili. Adesso, i numeri parlano chiaro: da quando è stato sciaguratamente introdotto il sistema dei debiti, il quarantadue per cento degli studenti finisce l’anno scolastico con una o più materie insufficienti. È un sistema anche iniquo, perché molti arrivano alla maturità con vari debiti non saldati e grazie a una sola buona prova - l’esame finale - magari escono con un punteggio superiore a quello di chi ha alle spalle un intero quinquennio senza insufficienze. Vi pare giusto?
È ora che noi adulti, dicevo, torniamo a essere antipatici. A dirvi cose sgradevoli. In una parola, è ora che torniamo a ricoprire quel ruolo cui abbiamo tragicamente abdicato, che è quello dell’educatore. «Educare» viene da e (da) e ducere (condurre, trarre): educare non vuol dunque dire imporre una visione del mondo, ma «trarre da» una persona quei valori che ha già dentro e che vanno fatti uscire. Educare vuol dire aiutare a crescere, preparare al mondo, alla vita. C’è stato purtroppo un momento - ed è la mia generazione ad essere colpevole - in cui noi adulti abbiamo pensato che il nostro dovere verso di voi fosse quello di rendervi la vita liscia, morbida, facile.

Abbiamo cominciato con la fesseria di dire che mamma e papà devono essere due «amici» invece che una mamma e un papà; vi facciamo nascere col parto indolore; vi difendiamo davanti ai professori quando prendete un quattro; vi teniamo in casa fino a trenta o quarant’anni lavandovi le mutande e facendovi sempre trovare un piatto pronto. Infine, vi abbiamo eliminato anche questi esami di riparazione.
Ma la vita, cari ragazzi, di esami ve ne riserverà comunque, e a bizzeffe. È bene che vi attrezziate fin d’ora.
Michele Brambilla

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