Giù la testa, si torna in trincea. Presa una boccata d'aria mercoledì, le Borse europee sono tornate ieri a perdere pesantemente afflitte da una sorta di riflesso pavloviano in base al quale se Wall Street soffre, tutti patiscono, nessuno escluso. Già incerta mercoledì sera, New York è andata molto peggio ieri (-4,2%). Un passo da gambero costato caro ai listini del Vecchio continente appesantiti da ribassi compresi fra il 3% di Francoforte, la peggiore, e il -1,49% di Londra, con Piazza Affari che ha lasciato sul terreno il 2,25%, riducendo ormai a poco più di due punti il guadagno da inizio anno.
A riportare le vendite sui parterre, il rinfocolarsi dei timori legati alla possibilità che la Federal Reserve, quest'anno, rompa la lunga tradizione caratterizzata da una gestione estremamente cauta della politica monetaria. Quattro rialzi dei tassi, anzichè i tre finora previsti, a causa di un'ascesa dell'inflazione superiore alle attese. Un'ipotesi rilanciata da un sondaggio del Wall Street Journal, in cui gli economisti intervistati, pur aspettandosi tre strette, giudicano come sempre più possibile una quarta.
Eppure, solo mercoledì, ben quattro presidenti regionali della Fed avevano gettato secchiate d'acqua gelata sulla possibilità di un forte inasprimento del costo del denaro. Ai quali si è aggiunto ieri un altro pompiere, il presidente della Fed di Filadelfia, Patrick Harker: «Con l'arrivo alla guida della Federal Reserve del governatore Jerome Powell, la politica monetaria americana non subirà un cambiamento notevole», ha rassicurato. Harker ha introdotto un altro elemento calmierante: la scarsa urgenza di accelerare nella riduzione del bilancio della banca centrale Usa, gonfiato negli anni di allentamento quantitativo. Parole non casuali, visto che la Fed sta imprimendo al piano di snellimento un vigore inatteso: dalla fine dello scorso dicembre, quando la banca centrale aveva ancora in carico 2.454 miliardi di Treasury, il controvalore è sceso il 31 gennaio di 18 miliardi, una cifra che supera il calo di 12 miliardi previsto. Questo boost dato alla normalizzazione del bilancio non è a costo zero, dato che impatta, oltre che sui titoli del Tesoro, anche su quelli ipotecari, i cosiddetti Mortgage backed securities (Mbs). Non a caso, se i rendimenti del T-bond decennale sono schizzati al 2,857%, i tassi d'interesse sui mutui a 30 anni hanno preso l'ascensore salendo di 10 punti solo nell'ultima settimana, al 4,32%. Dall'inizio dell'anno, l'aumento è stato di 30 punti. È una spia rossa accesa sulla consolle del mercato immobiliare americano, con potenziali ripercussioni negative sull'intera economia a stelle e strisce.
Ed è di questo, più che dell'eventualità di quattro strette al costo del denaro, che i mercati dovrebbero preoccuparsi.
Così come degli effetti che provocheranno sia il dimagrimento degli asset in pancia alla Fed, sia la reazione dei rendimenti sui titoli federali: un forte aumento delle emissioni di Treasury. Vale a dire, ancora più debito federale, destinato a salire entro la fine di giugno di 617 miliardi.
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