Nessun rimbalzo: si continua a vendere, con le Borse alla ricerca di un centro di gravità almeno apparente. Da Wall Street, reduce da un lunedì nero che ha marchiato a fuoco il Dow Jones con il calo più devastante della sua storia in termini di punti (1.175,21), non sono arrivati ieri segnali abbastanza confortanti per permettere ai mercati di rialzare la testa. Gli operatori ripetono come un mantra che si tratta solo di una correzione, brusca ma fisiologica, dopo la lunga corsa rialzista, ma l'Asia è stata falcidiata dai ribassi (-4,7% Tokio, la peggiore), mentre in Europa le perdite hanno superato il 2% (-2,08% Milano). Wall Street, a un'ora dalla chiusura, cedeva lo 0,46%.
Il conto dei danni è ingente: negli ultimi giorni si sono dissolti quasi 4mila miliardi di dollari di capitalizzazione. Preoccupa il Vix: l'indice della paura è volato oltre quota 50, ai massimi dall'agosto 2015, specchio dell'estrema volatilità del momento. Per alcuni analisti questa stato di cose è un problema perchè va a impattare sui calcoli VAR (che non è la moviola calcistica 2.0, ma la misura di rischio applicata agli investimenti), riducendo in modo sostenibile i potenziali livelli di leva finanziaria per le banche e gli hedge fund per il resto dell'anno. Si teme un colpo alla liquidità. «I mercati sembrano funzionare normalmente in termini di liquidità e altro», ha rassicurato ieri il segretario Usa al Tesoro, Steven Mnuchin.
Al netto di quanto accaduto in questi giorni, vale la pena ragionare sulle (presunte) cause di un cambio di umore dei mercati che ha perfino spiazzato gente assai scafata. Come Warren Buffet: lunedì scorso l'oracolo di Omaha ha perso 5,1 miliardi. E ancora: il patron di Facebook, Mark Zuckerberg, ha lasciato sul campo 3,6 miliardi, mentre il patrimonio di Jeff Bezos, dominus di Amazon e uomo più ricco del mondo, ha subìto una liposuzione di 3,3 miliardi. Qualcuno ha stimato che sono andati in fumo 114 miliardi dei primi 500 ricconi del mondo. Nessuno di loro, a quanto pare, aveva previsto un sell-off così violento. Giustificato, in base alla vulgata comune, dal fatto che negli Stati Uniti l'economia è forte e l'inflazione mostra un'accelerazione superiore alle aspettative. Dunque, la Federal Reserve potrebbe alzare i tassi quest'anno non tre, ma quattro volte.
Ora, se ci si affida alle statistiche ufficiali l'America scoppia di salute. Soprattutto sul fronte del mercato del lavoro, dove i dati raccontano di una situazione di quasi piena occupazione. Trascurando, però, la natura di quei posti, cioè la pletora di over-50 disposti a tutto per un impiego; e l'esercito di camerieri, baristi e commessi malpagati e part-time; o la quasi sparizione degli stipendi da capo-famiglia. Del resto, nel 2017 il Pil a stelle e strisce è cresciuto del 2,3%, un dato inferiore al 2,4% dell'eurozona, mentre il debito federale ha superato i 20mila miliardi e quello delle famiglie toccato i 12.840 miliardi. Non basta inoltre un incremento delle paghe orarie del 2,9% annuo, dopo mesi e mesi di appiattimenti salariali più volte denunciati da Janet Yellen, per ritenere possibile che nel breve i prezzi aggancino il target Fed del 2%.
Ma ipotizziamo anche che ciò accada: davvero è pensabile che Jerome Powell, uomo scelto da Trump per comandare la Fed mantenendo dritta la barra sulla rotta degli aggiustamenti graduali di politica monetaria, cali sul tavolo un poker di rialzi del costo del denaro? Assumendosi il rischio di far saltare il banco non solo a Wall Street e dintorni, ma in tutto il mondo, a cominciare dai Paesi più indebitati in dollari? La stessa prudenza dovrebbe caratterizzare per tutto il 2018 anche l'azione della Bce (primo giro di vite sui tassi non prima della seconda metà del 2019) e della Bank of Japan, che resterà ancora a lungo sui principi ultra-accomodanti dell'Abenomics. Le Borse dovrebbero tenerne conto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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