Economia

Ce lo dice la crisi: le aziende familiari meglio dei colossi

Società come Campari o Ferragamo capitalizzano in Borsa più di colossi quali Mediobanca e Finmeccanica: è la lezione italiana che arriva dalla crisi

Ce lo dice la crisi: le aziende familiari meglio dei colossi

La prima sensazione che si ha guardando alla Bor­sa italiana è lo sconforto. Tutta intera vale la metà di Ap­ple. Ma è il mercato borsistico oc­cidentale ad aver perso appeal. l' Economist notava proprio ieri che anche New York e Londra, i due mostri sacri del mercato, non sono più molto sexy. Non at­tirano matricole e anzi il nume­ro delle società quotate è dram­maticamente sceso. Il settima­nale britannico lo dice proprio nel giorno della quotazione di Facebook: una bomba. Con la quale però non si cambiano le sorti della guerra capitalistica.

Guardando al nostro misero li­stino si fanno però delle scoper­te niente male. Che danno l'idea dei poteri nel piccolo capitali­smo tricolore. Ebbene forse non tutti notano come la Campari, a forza di farsi bere, oggi a Piazza Affari valga ben di più della bla­sonata Mediobanca. Oppure che la Tod's sia, in certi momenti di Borsa, più pesante della terza banca italiana e cioè il Monte dei Paschi di Siena. E ancora la Fer­ragamo ( che a differenza dei po­liticamente corretti di Prada ha preferito coraggiosamente sbar­care a Milano invece che ad Hong Kong) abbia una capitalizzazione quasi doppia rispetto a Finmeccanica.

È chiaro come i prezzi di Borsa non rappresentino tutto. E che il gioco su chi valga di più oggi, non necessariamente varrà anche do­mani. Si possono però trarre alcu­ne prime conclusioni.

1. Come sottolinea l' Economist le grandi società con molti piccoli azionisti diffusi sul mercato non vi­vono un momento di gloria oggi. Si preferisce una via italiana alle pri­vate company . E cioè meglio un pa­drone di un manager.

2. Le aziende di maggiore succes­so sul mercato azionario sono quel­le che riescono più facilmente a sganciarsi dall'Italia. Abbiamo fat­to solo tre esempi, ma ne potrem­mo fare centinaia sulla forza delle nostre imprese che vivono di esportazioni. Nel nostro piccolo club inoltre il timone di comando è solidamente in mano ai proprie­tari che hanno maggioranze forti delle loro società quotate.

3. Il fatto che Della Valle valga più di Profumo, che Garavoglia doppi Pagliaro e che Ferragamo guardi dall'alto Orsi, è una delle ra­gioni per le quali assistiamo a un certo rimescolamento negli asset­ti di potere del capitalismo italia­no. Prima o poi le azioni si contano per il loro peso effettivo.

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I saggi che devono scegliere il prossimo presidente dell'Abi si so­no presi un po' di tempo. C'è chi spera sia un modo per mettere i ba­stoni tra le ruote alla riconferma di Giuseppe Mussari. Non è così. A meno di clamorosi colpi giudiziari riguardo l'acquisizione di Anton­veneta da parte di Mps, di cui era appunto presidente Mussari, la sua riconferma è scontata. Dalla sua due assi nella manica.

Il primo è lo statuto (che l'Abi ha cambiato ben due volte negli ulti­mi due anni) e precisamente l'arti­colo 14, punto c: il comitato esecuti­vo dell'Abi sceglie il suo presiden­te con il principio dell'alternanza. Un giro ai rappresentanti delle grandi banche e poi è la volta dei medio-piccoli. L'incarico dura due anni, rinnovabili. Mussari ha fatto i primi due e gli tocca ora il rin­novo. Se per qualche motivo doves­se non essere il candidato, i big sal­terebbero il giro e i piccoli potreb­bero scegliere un loro rappresen­tante per i prossimi quattro anni. I grandi non potrebbero infatti cam­biare cavallo in corsa.

Il secondo è più politico. Mussa­ri ha un grande credito politico. È riuscito a dare il colpo finale all'al­lora agonizzante governo Berlu­sconi. Fu lui che imbastì con Con­findustria quell'imbarazzante do­cu­mento per il salvataggio dell'Ita­lia che tra le altre cose prevedeva la patrimoniale da sei miliardi. Furo­no convinti a firmare anche i picco­li (sarà un caso ma gente come il presidente della Confartigianato, Giorgio Guerrini, è anche vicepre­sidente di una banca) che avevano tutto da perdere da quelle confuse tracce di politica economica. Ma insomma Mussari fu molto abile a coinvolgere una buona fetta del mondoproduttivoapparentemen­te contro lo spread che saliva, real­mente contro Berlusconi che scen­deva. Difficile mollarlo proprio og­gi, che lo spread ha ripreso a salire.

P.s. Molto La7 il pranzo di benefi­cenza di Tog, la fondazione pro­mossa da Carlo de Benedetti, che si è tenuto a Milano martedì. A pre­sentare l'evento (gratuitamente, ha sottolineato l'Ing) Serena Dan­dini con l'aiuto di un favoloso Mar­corè. Al tavolo d'onore, quello di Cdb, Daria Bignardi, apparente­mente rapita dalla confabulazio­ne con Scaroni. A un tavolo di di­stanza il direttorone, Enrico Men­tana. Gad Lerner ovviamente in prima fila. Il cuoco che cucina que­sta zuppa non conta, ma faceva nu­mero. L'Ing non ha perso l'occasione per ribadire pubblicamente che La7 non la compra.

«Se dice così, è fatta» commentava divertito un banchiere che conosce da anni la family.

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