Oscurata in parte dai fattori geopolitici e soprattutto da quelli monetari, a partire dallo scorso febbraio la sindrome cinese è come sparita dai radar dei mercati dopo averli tenuto in ostaggio per mesi. Eppure, rispetto al periodo caldo in cui i terremoti finanziari avevano come epicentro l'ex Celeste Impero, poco o nulla è cambiato. Pechino resta alla prese con le solite criticità, la prima delle quali è la difficoltà a governare il rallentamento di un'economia destinata a crescere attorno al 6,5-7% nel 2016 contro il 7,4% dello scorso anno. Anche gli ultimi dati congiunturali hanno confermato la frenata in atto del Dragone: l'export di febbraio è caduto del 25,4% su base annua, le importazioni sono crollate del 13,8%, a dimostrazione di come sia ancora del tutto incompiuta la transizione da un modello basato sul made in a un'economia fondata anche sui consumi interni, mentre tra gennaio e febbraio i profitti delle imprese statali si sono schiantati del 14,2%. Inoltre, resta da affrontare il problema che si porrà nei prossimi due-tre anni, ovvero il licenziamento di circa sei milioni di lavoratori statali in seguito all'uscita da settori ritenuti non più strategici e all'intento di ridurre la sovracapacità produttiva e l'inquinamento. Se non ben gestito, un focolaio di pericolose tensioni sociali.Si tratta di sfide non facili da vincere, visto che necessiteranno dell'implementazione di riforme strutturali per snellire l'apparato burocratico e aprire ancor di più il mercato interno. Il compito è reso ancor più complicato dal continuo deflusso di capitali con cui deve fare i conti il premier cinese, Li Keqiang. Una fuga che sta costringendo la People's Bank of China a intaccare a ripetizione le riserve in valuta estera, calate di circa 29 miliardi di dollari il mese scorso, a 3.200 miliardi di dollari, dopo i 99,5 miliardi di gennaio e i 108 di dicembre. Il dato più recente sembrerebbe indicare una stabilizzazione degli outflow che, se risulterà effettiva, potrebbe evitare il ricorso a due misure che Pechino ha detto di non voler prendere: un aumento dei tassi o, peggio, una massiccia svalutazione dello yuan. Quest'ultima sarebbe una misura poco politica in vista dell'ingresso, previsto per il prossimo ottobre, della valuta nel basket del Fmi. Il rapporto con il dollaro resta però abbastanza indecifrabile: una settimana fa la moneta cinese era ai massimi da tre mesi contro il biglietto verde; ieri, rispetto al greenback, è scivolata ai minimi da due mesi e mezzo. Un andamento che potrebbe tener conto di fattori esogeni, il primo dei quali riguarda le scelte di politica monetaria da parte della Federal Reserve. La scorsa settimana lo yuan aveva infatti beneficiato dell'indebolimento della valuta Usa dopo che la banca guidata da Janet Yellen aveva ammesso che i rialzi dei tassi sarebbero stati quest'anno solo due, anziché i quattro preventivati lo scorso dicembre. Il primo giro di vite potrebbe essere deciso in aprile, un'aspettativa rafforzata ieri dalla revisione al rialzo del Pil americano rialzo nel quarto trimestre da +1% a +1,4%. L'America cresce consecutivamente da sette trimestri, ma se i consumi corrono (+2,4% rispetto al +2% inizialmente previsto), il dollaro forte si è fatto sentire sull'export (-2% dopo il +0,7% del periodo luglio-settembre).
Trovare il giusto equilibrio sul mercato dei cambi sarà dunque la sfida cruciale dei prossimi mesi. Soprattutto se le spinte inflazionistiche costringeranno la Fed ad essere più aggressiva del previsto. A quel punto, Pechino non resterebbe a guardare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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