Energia e fondi di investimento, rischi per gli interessi

L'incertezza pesa su Eni, maggior investitore, e sulle partecipate dalla Lybian Investment Authority

Energia e fondi di investimento, rischi per gli interessi

L'Italia è esposta su due fronti al conflitto in Libia. Prima di tutto per quel nugolo di aziende che ha (Eni) o aveva, fino allo scoppio dei disordini, interessi economici nel Paese per svariati miliardi di euro (Salini Impregilo che si era aggiudicata un appalto per la costruzione di un' autostrada, ma anche Techint, Ansaldo, Iveco Sirti...) e attende la normalizzazione del Paese nord africano per poter riprendere il business. Il maggior investitore italiano in Libia è Eni, presente nel Paese sin dal 1959. Nel 2017 la produzione in quota Eni ha toccato quota 384mila barili al giorno, il livello più elevato registrato storicamente dal Cane a sei zampe a Tripoli.

Le attività Eni in Libia sono regolate da contratti di Exploration and Production Sharing (EPSA) che hanno durata fino al 2042 per le produzioni a olio e al 2047 per quelle a gas. Ma si tratta di un' attività su cui, come riconosce lo stesso gruppo energetico, pesa il rischio politico: «Il management ritiene che la situazione geopolitica della Libia continuerà a costituire un fattore di rischio e d' incertezza per il prossimo futuro».

Non solo. L'interesse di Roma è anche su quella pattuglia di società partecipate dal fondo di investimento libico Lia (Lybian Investment Authority) o dalle sue controllate che, dal 2011, si sono visti bloccare l' operatività dalla Ue e dagli Usa in attesa che si stabilizzi lo scenario politico tra Tripoli e Bengasi e sia identificato il governo legittimo del Paese. Il fondo era stato creato nel 2006 da Gheddafi per investire i flussi provenienti dal greggio, diversificando dove possibile le attività fino ad arrivare a un patrimonio di 67 miliardi di dollari investito in 500 società al mondo. Di questi, tre miliardi circa erano stati puntati, nel corso del tempo, sulle aziende tricolore tra cui: Eni, Enel, Unicredit, Leonardo-Finmeccanica, Fiat-Chrysler, Juventus e persino su Mediobanca.

Dal 2011 a oggi, una serie di fattori ha concorso a disperdere le tracce della presenza dei libici sul listino italiano come, ad esempio, il trascorrere degli anni dal congelamento dei beni della Lia e l' impossibilità dei rappresentati del fondo di gestire attivamente le proprie partecipazioni; le operazioni sul capitale delle diverse società che possono aver notevolmente diluito le quote detenute dai libici nelle aziende tricolori e comunque le regolamentazioni di Consob che rendono obbligatoria la comunicazione della partecipazione solo oltre una soglia piuttosto elevata. È tuttavia possibile che, nel momento in cui la Lia dovesse riprendere in mano il pieno controllo delle sue attività, possano emergere nuovamente dal limbo.

E in effetti la Lia si sta nuovamente muovendo a Londra, alla English Commercial Court, per rivendicare il pieno controllo sul suo tesoro che nel frattempo, di anno in anno, si accresce grazie a cedole e rivalutazioni. Ne ha dato notizia via web, lo stesso fondo. La Lia ha chiesto il riconoscimento del suo vertice guidato da Ali Mahmoud Hassan Mohamed: il board, sottolinea il fondo, è stato indicato dal governo del primo ministro Fayez al Serraj sostenuto dall' Onu.

Finora simili decisioni sono state ritenute premature dalle diverse autorità giudiziarie. Tanto più che la stessa sede della Lia, a inizio agosto, è stata sottoposta agli attacchi delle milizie avverse. Ma non è detta l' ultima parola.

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