Per capire se davvero Janet Yellen abbia smesso il piumaggio della colomba per diventare un falco anti-Trump, basterà aspettare il mese prossimo. Un rialzo dei tassi in marzo sarebbe la prova che la presidente della Federal Reserve si prepara alla guerra con il nuovo inquilino della Casa Bianca. Già nell'audizione di martedì scorso davanti alla Commissione bancaria del Senato, la numero uno di Eccles Building ha detto a chiare lettere che «attendere troppo a lungo» per aumentare il costo del denaro sarebbe imprudente, «non saggio». I future sui Fed fund assegnano alla stretta marzolina un 36% di probabilità. Non è molto, ma non è neanche poco. Le condizioni per una stretta sembrano del resto ideali. «Siamo molto vicini al raggiungimento dei nostri obiettivi» (piena occupazione e stabilità dei prezzi), ha chiarito ieri la Yellen nel suo secondo giorno al Congresso Usa.
Il punto, tuttavia, è che un restringimento delle maglie monetarie avrebbe in questo momento una valenza fortemente politica. Mentre The Donald è impegnato ad abbattere steccati (la regolamentazione anti-crisi dei mercati finanziari) e ad alzare muri (Messico e immigrazione islamica), la Fed potrebbe essere tentata ad accelerare il processo di normalizzazione dei tassi anche per riaffermare la propria autonomia. Superiore a qualsiasi Corte federale e riaffermata dopo la lettera con cui il repubblicano Patrick McHenry chiedeva al capo della Fed di evitare colloqui internazionali nella prima fase della presidenza Trump. Un'ingerenza chiaramente sgradita. Seppur la Yellen abbia detto ieri di contare «su una relazione solida» col nuovo segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, tutto la separa da Trump. Se quest'ultimo punta a rottamare la riforma finanziaria Dodd-Frank voluta nel 2010 da Barack Obama, la Yellen la difende a spada tratta. I requisiti patrimoniali imposti sulle banche sono secondo lei appropriati e «sosterranno la capacità di fornire credito agli americani anche in scenari avversi», ha spiegato sempre ieri. Che vede inoltre nel cambiamento radicale delle politiche legate all'immigrazione un fenomeno che «potrebbe condizionare negativamente la crescita» americana. Poi c'è un ulteriore punto di attrito, ovvero gli sgravi fiscali promessi dal presidente americano. «Misure di questo tipo - ha detto di recente la Yellen - possono avere un impatto sull'indebitamento a lungo termine».
Un giro di vite ai tassi in marzo sarebbe un segnale forte anche perché indicherebbe che c'è spazio per tre rialzi nel 2017. Solo per l'effetto rafforzante che avrebbero sul dollaro, roba indigesta per Donald. Ma per la Yellen il sentiero della politica monetaria è reso stretto dalle pulsioni protezionistiche e improntate al deficit spending del nuovo padrone dello Studio Ovale: potrebbero far esplodere il debito federale, infiammare l'inflazione e portare a una brusca frenata dei commerci internazionali, con ricadute interne in termini di occupazione.
Uno scenario che può mandare a gambe all'aria i propositi di Trump di creare 25 milioni di nuovi posti di lavoro e ottenere una crescita economica del 3% all'anno (impresa mai riuscita a Obama). In particolare, se un'azione troppo restrittiva da parte della Yellen - positiva per contenere le pressioni inflazionistiche - dovesse far scivolare l'America in recessione.
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