Il ruolino di marcia continua a essere rispettato: la Federal Reserve ha ieri incasellato il terzo rialzo dei tassi del 2019, portandoli all'2-2,25%. Il processo di normalizzazione della politica monetaria prosegue quindi senza scosse, nonostante le pressioni esercitate da Donald Trump sul presidente della banca centrale Usa, Jerome Powell, allo scopo di ammorbidire la stretta sul costo del denaro. Esplicito, al riguardo, il successore di Janet Yellen: la «politica non ha un ruolo nel processo decisionale della Fed». Come dire: «non prendiamo ordini da nessuno».
Avanti tutta, insomma, grazie a un'economia - ha spiegato il numero uno dell'istituto di Washington - che «è solida», a un tasso di disoccupazione «in calo» e a salari in aumento. Tutti questi «sono buoni segnali», anche se un neo c'è, e grosso: «Il quadro - ha ammesso Powell - «non è perfetto», visto che «i benefici dell'espansione «non sono colti da tutti gli americani».
Non altrettanto scontata era invece la traiettoria delle prossime decisioni. Sulla carta, l'istituto di Washington sembra voler procedere, come previsto in giugno, con rialzi ancora «graduali». L'ultimo, per il 2018, da attuare in dicembre; poi, il prossimo anno, altri tre aumenti destinati a portare i tassi al 3,1%; infine, nel 2020, un solo rialzo. Uno scarto rispetto al passato c'è già: la Fed ha rimosso il termine «accomodante» con cui dal 2011 era sempre stata definita la politica monetaria. Per Powell, però, ciò «non segnala» un cambio di passo drastico. «Per tutti questi anni abbiamo tenuto i tassi di interesse a un livello adeguato a rispondere alla gravissima crisi», ora - ha assicurato - «continueremo a lavorare in questo senso» anche tramite la politica fiscale e «i tassi restano bassi».
Anche se le ultime indicazioni rispecchiano quelle d'inizio estate, con il passare dei mesi i tassi potrebbero diventare un materiale da maneggiare con molta cautela. L'azione di restringimento delle maglie monetarie rischia di esplodere in mano alla Fed, soprattutto se dovesse provocare un'inversione della curva dei rendimenti tra titoli a breve e quelli a più lungo termine. Ovvero, con quest'ultimi che esprimono tassi meno elevati dei primi. Si tratta di un rovesciamento del normale andamento che, storicamente, segnala l'arrivo di una recessione nell'arco dei successivi 6-15 mesi. Un pessimo segnale. È però anche vero che più si porta avanti col lavoro aumentando il costo del denaro, e più la banca Usa è attrezzata per fronteggiare una crisi. Alcuni studi hanno infatti stimato che sono necessari tagli dei tassi di almeno 300 punti per contrastare fenomeni recessivi e riportare l'economia sul binario della crescita.
In ogni caso, nulla è scritto sulla pietra. Come ha sempre fatto, la Fed continuerà ad aggiustare in corso d'opera la propria azione sulla base dell'evoluzione del quadro geo-politico ed economico. La correzione al rialzo dello stime sul Pil di quest'anno (+3,1%) e del prossimo (+2,5%) lasciano ben sperare. Tuttavia, le ripercussioni della guerra commerciale tra Usa e Cina non sono per esempio facili da calcolare in anticipo, anche se Powell ha detto che «nel lungo periodo i dazi sono un male per l'economia Usa» e tra le imprese le preoccupazioni «sono crescenti. Siamo preoccupati in particolare per due cose, la possibile perdita di fiducia delle aziende ed eventuali ricadute sui mercati finanziari». Così come è difficile prevedere se e come si risolverà la crisi dei Paesi emergenti, a cominciare da quella dell'Argentina.
L'appuntamento con il voto di mid-term negli Usa, in novembre, rappresenta un'altra incognita di potenziale impatto con la politica monetaria. Trump potrebbe infatti uscire rafforzato, oppure depotenziato, dall'esito elettorale e cambiare di conseguenza l'agenda economica della Casa Bianca.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.