Un salasso da nove miliardi di euro. Tanti. Troppi per giustificare l’acquisizione di un boccone pur prelibato come Antonveneta. Come mai il Monte dei Paschi si svenò per portare a termine quell’operazione nel 2007? E che cosa è successo negli anni successivi? Domande che da sempre frullano nella testa dei piccoli azionisti del colosso senese, il terzo istituto di credito italiano, dei sindacati e di molti osservatori. Ora quei quesiti sono al centro dell’inchiesta che la procura di Siena ha portato allo scoperto ieri mattina con una raffica di perquisizioni in mezza Italia. Un battaglione di finanzieri - 147 militari - ha bussato contemporaneamente al portone di Rocca Salimbeni, sede del Monte, a Palazzo Sansedoni, quartier generale della Fondazione, al Comune e alla Provincia, da sempre gestiti da giunte di sinistra, nelle case e negli uffici di alcuni alti dirigenti del Monte e della Fondazione. Dall’ex presidente della banca Giuseppe Mussari all’ex dg Antonio Vigni. Come se non bastasse, dopo aver violato il tempio della finanza rossa, i segugi delle Fiamme gialle hanno visitato alcuni celebri indirizzi della finanza tricolore e internazionale. Sono andati a Mediobanca, al Credit Suisse, a Deutsche Bank, e naturalmente ad Antonveneta, con blitz mirati fra Milano, Roma, Padova, Mantova, Firenze. Il blitz ha pesato sull’andamento in Borsa (-7%).
Si torna così al peccato originale, quello che pesa come un macigno su tutta questa storia. Nel 2007 è il Banco Santander a mettere in pancia la banca veneta. Il prezzo è di 6,6 miliardi di euro. Dopo solo due mesi gli spagnoli vendono, ma quel che è più sorprendente è il prezzo astronomico che riescono a fissare: 9,3 miliardi di euro. Nove miliardi che il Monte dei Paschi paga senza batter ciglio. Ora nel 2007 la crisi non era ancora esplosa e le prospettive di crescita erano ancora alte, insomma vivevamo in un altro mondo e con altre certezze, ma con tutta la buona volontà non si riesce a capire come la dirigenza del Monte abbia potuto impelagarsi in un’operazione così avventata. Oggi la nomenklatura senese si difende proprio evocando la congiuntura internazionale che si è abbattuta come un ciclone, ma qualcosa, anzi molto non quadra. Il passo è più lungo della gamba e avrebbe costretto i colletti bianchi a una serie di operazioni sul filo della legge.
La procura ritiene che all’epoca non fu fatta una due diligence. Ma è tutto quel che è successo da allora ad essere passato ai raggi x: l’aumento di capitale che coinvolse 11 banche, capeggiate da JpMorgan, pure perquisita come Intesa Sanpaolo e Barclays, e poi i finanziamenti erogati alla Fondazione, per affrontare il supe-rsforzo finanziario. E non torna l’andamento del titolo, ovviamente crollato come tanti altri in questa stagione grama. È questo uno dei punti più infiammati dell’indagine che sospetta una guerra fra creditori e debitori sui titoli. La procura pensa che il valore delle azioni sia stato gonfiato dai dirigenti del Monte, per tenere su il titolo ed evitare così di versare cifre ingenti, come sarebbe accaduto se si fosse scesi sotto una certa soglia; dall’altra parte invece qualcuno provò a far precipitare le azioni per costringere Rocca Salimbeni a versare ulteriore denaro a garanzia di un pegno. In pratica ci sarebbe stata una manipolazione del mercato, ovvero un aggiotaggio, con un abbassamento inspiegabile del titolo anche nel gennaio 2012.
Non solo: sarebbero stati frapposti ostacoli alle funzioni dell’autorità di vigilanza, Consob: il Monte non avrebbe comunicato la sottoscrizione di derivati swap, stipulati nell’ambito dell’acquisizione di Antonveneta. Almeno due pezzi da novanta del Monte sono indagati, ma l’inchiesta è appena entrata nel vivo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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