Venerdì scorso, mentre l'euro flirtava pericolosamente con quota 1,40 dollari, Mario Draghi ci ha messo una pezza. L'ipertrofia della moneta unica «ha certamente avuto un impatto significativo nel nostro tasso d'inflazione - ha ammesso il presidente della Bce - e, dati gli attuali livelli d'inflazione, sta diventando rilevante in misura crescente nella nostra valutazione della stabilità dei prezzi». Ciò significa, in buona sostanza, che l'Eurotower sta per abbandonare quell'attendismo che da almeno un paio di mesi ne ha ingessato ogni decisione. All'inizio di aprile, dovrebbe quindi essere dispiegato l'arsenale di armi non convenzionali finora tenuto a prender polvere. Le ipotesi riguardano uno stop alle operazioni settimanali con cui la Bce riassorbe la liquidità di 175 miliardi creata comprando i titoli di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia fra il 2010 e 2011, oppure l'acquisto di titoli di Stato sul modello della Fed; ultima alternativa, prendere in carico i prestiti di imprese e famiglie, trasformati in titoli attraverso le cartolarizzazioni.
A parte un taglio ai tassi, il cui eventuale effetto è visibile non prima di sei mesi, ognuna di queste tre opzioni presenta degli effetti collaterali, a cominciare da quali criteri adottare per effettuare gli acquisti. In assenza di interventi, non sono pochi gli esperti che prevedono un euro proiettato oltre la soglia di 1,45 dollari, con un potenziale rialzista anche nei confronti di yen e yuan. Un autentico disastro. A tal proposito, vale la pena di ricordare uno studio della Deutsche Bank, secondo cui la Germania può sopportare, senza soffrire, un cambio fino a quasi 1,80 dollari; gli altri Paesi periferici sarebbero invece già ben oltre la «soglia del dolore», fissata a 1,17 per l'Italia e a 1,24 per la Francia. Ciò spiega il motivo per cui il made in Deutschland regge ancora sui mercati internazionali, mentre le nostre imprese, faticando sempre di più a vendere non solo sul mercato interno causa recessione, ma anche al di fuori dei confini nazionali, hanno perso dal 2008 a oggi un quarto della capacità produttiva.
È evidente che rapporti di cambio ipertrofici metterebbero ulteriormente in ginocchio le nostre imprese e condannerebbero l'Italia (e non solo) alla deflazione. Non la miglior medicina per Paesi con elevati livelli d'indebitamento, nè per la ripresa, che ne risulterebbe seriamente compromessa con ricadute in termini di maggiore disoccupazione. Uno dei capisaldi delle politiche di austerity è incardinato sull'idea che il recupero di competitività dei Paesi periferici dell'eurozona debba passare dalle svalutazioni interne. Ovvero, attraverso la compressione dei salari garantita da un aumento del tasso di disoccupazione, unito alla minaccia di licenziamenti e delocalizzazioni. Chi non ha un posto e chi teme di perderlo, si sa, ha minor potere contrattuale. È quanto ha fatto tra il 2003 e il 2005 la Germania con l'Hartz IV, grazie a cui è stato recuperato un 25% di competitività. Con una sola differenza rispetto a oggi: le riforme del lavoro vennero attuate in un ciclo economico espansivo, non recessivo.
La crisi, affrontata con la politica del rigore, sta invece generando deflazione.
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