La prossima settimana si aprirà il Los Angeles Auto Show e c'è da scommettere che l'attenzione di top manager e media sarà soprattutto rivolta su come il nuovo inquilino della Casa Bianca affronterà i temi legati all'auto. Se, cioè, Donald Trump darà seguito ai propositi di sciogliere gli accordi legati al Nafta, mettendo nel mirino il Messico, nonché di rivedere il patto nucleare raggiunto da Barack Obama con l'Iran. L'economia del Messico è sempre più legata all'automotive e meta di continui investimenti da parte dei colossi del settore (Fca ha due impianti: a Toluca e Saltillo) e della componentistica. Il Paese ha già calamitato investimenti per 24 miliardi di dollari e rappresenta il 20% di tutti i veicoli prodotti nel Nord America. L'Iran, invece, da poco è tornato al centro dell'attenzione del settore, in particolare dei francesi (Psa e Renault), ma anche Fca è alla finestra. «È una grande opportunità», ha affermato a più riprese Carlos Tavares, ad di Psa.
Ma la preoccupazione riguarda anche i rapporti commerciali con l'Europa (timore già espresso dall'associazione lobbistica tedesca) visto che Trump ha sempre detto di voler privilegiare economia e interessi del proprio Paese.
Fin qui la faccia della medaglia che non fa dormire sonni tranquilli ai costruttori, considerato che quasi tutti producono anche in Messico, guardano con interesse all'Iran ed esportano negli Usa. L'altra faccia della medaglia, invece, potrebbe sgravare non di poco il settore, grazie a una possibile dilazione dei tempi rispetto ai severi parametri sui consumi imposti da Obama. Un vantaggio per tanti, in virtù anche del basso costo del petrolio e della conseguente impennata delle vendite di grossi Suv e pick-up, e una scoppola, invece, per chi ha puntato forte sui motori ibridi ed elettrici. Da questo punto di vista, l'ad di Fca, Sergio Marchionne, seppur sostenitore della sconfitta Hillary Clinton, dovrebbe essere contento. Il top manager, infatti, non perde occasione per ricordare come la svolta elettrica comporti pesanti perdite nei conti dei gruppi. E da qui la necessità di trovare sinergie per affrontare il lievitare dei costi. Di questi giorni, poi, è la lettera che l'associazione lobbistica Usa dell'auto ha inviato a Trump. I firmatari (Ford, Gm, Fca, Bmw, Toyota e Volkswagen) chiedono all'Amministrazione di allentare i grattacapi regolatori imposti da Obama, impegnandosi a collaborare con il neo presidente. Non è un segreto che Trump abbia più volte sostenuto che il cambiamento climatico è una «bufala», dicendosi pronto ad alleggerire le norme dell'Agenzia Usa per l'ambiente, al cui vertice avrebbe già designato un suo delfino. Più tempo, dunque, per elaborare in sintonia una via comune su emissioni, efficienza (per i veicoli leggeri Obama chiedeva 54,5 miglia per gallone di benzina entro il 2025), sicurezza e tecnologie legate alla guida autonoma. Le regole dettate da Obama avrebbero infatti comportato un congruo ritocco dei prezzi delle automobili.
Tutto bene, allora? Fino a un certo punto. Resta da vedere se Trump chiederà apertamente, ai costruttori presenti sul suolo Usa, di rivedere i piani in Messico, magari bloccando in favore del territorio americano investimenti già decisi (Ford, per esempio, ha annunciato un nuovo sito per auto piccole; la stessa Fca ha scelto Toluca, dove nasce la gamma Fiat 500, per la nuova Jeep Compass; in proposito sembra che anche Obama avesse storto il naso).
Trump non può dimenticare che tra chi lo ha votato ci sono tante «tute blu» dell'automotive, preoccupati dalla sempre più forte
rivalità dei colleghi centroamericani. E così tra i suoi alleati ha trovato anche il sindacato Uaw, lesto a cogliere l'occasione per riconquistare un ruolo forte dopo le recenti emorragie di iscritti. I giochi sono aperti.
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