Moody's fa calare la scure sulla Cina

Draghi non molla la presa: "Nessun motivo per cambiare, avanti con il bazooka"

La Cina e Mario Draghi hanno un punto in comune: una certa insofferenza nei confronti di chi li giudica. Dopo quasi 30 anni, ieri Moody's ha fatto calare la scure sul rating del Dragone, declassato ad «A1» dal precedente «Aa3». Colpa di un'economia in rallentamento a fronte di un debito in continua ascesa. Roba arci-nota che, come spesso accade, le agenzie di valutazione ratificano a scoppio ritardato o, peggio, a disastro avvenuto (Lehman Brothers docet). Pechino però non l'ha presa bene, accusando l'agenzia Usa di usare una «metodologia inadeguata», di dare un'«esagerata valutazione delle difficoltà» in cui si trova il Paese e di sottovalutare le capacità di andare più a fondo «con la riforma strutturale dell'offerta e di espandere adeguatamente la domanda aggregata».

La reazione sembra indicare che Moody's ha toccato un nervo scoperto, ma appare abbastanza sproporzionata visto che i mercati hanno nella sostanza ignorato la bocciatura, a parte il deprezzamento subìto dallo yuan sul dollaro, a quota 6,8758. Del resto, agli occhi degli investitori appare ben più interessante seguire gli sviluppi ai piani alti della Bce, dove in gioco c'è la rimodulazione della politica monetaria. Nel board stanno aumentando i pruriti di quanti verrebbero cominciare a introdurre il tema del tapering, con la preparazione del ruolino di marcia necessario per arrivare alla completa estinzione del quantitative easing. E non sono soltanto i tedeschi, ma anche un fedelissimo di Draghi come il francese Benoit Coeuré. È da mesi che l'ex governatore di Bankitalia viene tirato per la giacchetta, tra accuse di tardare il processo di normalizzazione per aiutare i Paesi più deboli. Italia in testa. La risalita dell'inflazione e l'affermazione di Macron alle presidenziali francesi, che ha scongiurato una Frexit, hanno rinvigorito l'ala che pretende una sollecita rottamazione del bazooka e una correzione di rotta anche sui tassi di interesse. D'altra parte, un recente discorso pronunciato dal numero uno dell'Eurotower molto centrato sui venti di crescita che soffiano sull'eurozona, era stato interpretato come la conferma di un'imminente revisione delle linee-guida dell'Eurotower. Magari già nella riunione dell'8 giugno a Tallin. Niente di più sbagliato: Draghi non intende arretrare di un millimetro. «Non c'è nessun motivo per deviare dalle nostre linee guida», ha detto ieri in un intervento a Madrid. Nemmeno a fronte di «una ripresa sempre più solida», senza che vi siano «evidenze di bolle creditizie» o nel settore immobiliare.

Il Qe è quindi destinato a proseguire al ritmo mensile di 60 miliardi di euro di acquisti di titoli almeno fino alla fine dell'anno. E la forward guidance sui tassi (zero quello principale, -0,40% sui depositi presso la Bce) prevede che questi rimangano su livelli pari o inferiori a quelli attuali «ben oltre l'orizzonte dei nostri acquisti netti di attività». Nel Rapporto sulla stabilità finanziaria, diffuso ieri, la Bce ricorda tra l'altro che un giro di vite ai tassi «può provocare nuove preoccupazioni sulla sostenibilità del debito» e che un rialzo di quelli obbligazionari rischia di «provocare consistenti perdite per gli investitori maggiormente esposti» in attività a tasso fisso. Insomma: per la Bce non è ancora tempo di cambiamenti, ma per la Fed sì.

Dalle minute dell'ultima riunione emerge che la maggioranza dei componenti il board è favorevole «ad alzare i tassi a breve». Ma il rischio che Donald Trump possa finire sotto impeachment potrebbe aver già fatto cambiare idea alla squadra guidata da Janet Yellen.

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